Prostituzione, prostituzione migrante, sessualità e linguaggio

Proponiamo l’articolo pubblicato in Trickster – rivista del Master in studi Interculturali- Università di Padova, da un’intervista di Enio Sartori ad Adone Brandalise, direttore del Master.

“La sovrapposizione sempre più forte tra migrazione femminile e prostituzione sembra invitarci a pensare ad una relazione, al di là dei dati quantitativi, più complicata tra questi due fenomeni.”
È comprensibile che, provenendo da un contesto di riflessioni riguardanti i significati del complesso di situazioni prodotte dal fenomeno migratorio nei nostri contesti, si possa essere attratti dall’idea di istituire quasi una sorta di analogia tra alcuni aspetti della condizione del migrante e quello della prostituta per ciò che riguarda quella che potremmo definire la capacità dell’uno come dell’altra di funzionare come una sorta di liquido di contrasto all’interno del corpo sociale in cui l’uno e l’altra vengono ad essere inseriti. Insomma, rivolgendosi all’oggetto prostituzione, si è in qualche modo tentati di stimolarlo, nel senso del renderlo parlante su coloro che lo interrogano. Dopotutto, la condizione di coloro che si prostituiscono sembra essenzialmente segnata dalla loro disponibilità a divenire oggetto per coloro che se ne servono. Sotto questo profilo, per tanti versi la loro prestazione ricorda fin troppo da vicino quella sorta di operazione di sospensione dell’attenzione, avrebbe detto Valery, con cui le parole si associano al significato come dimenticando la loro natura di parole. Insomma una delle prestazioni che coloro che si prostituiscono offrono a coloro che diventano in qualche modo i loro clienti, è tutto sommato, di disporre il loro corpo e a maggior ragione la loro fisionomia personale in maniera tale da non disturbare l’immaginazione che guida coloro che fruiscono del loro servizio.
“Con questo ultimo giro di parole mi sembra che lei ci abbia condotti al cuore della relazione tra cliente e prostituta. Potrebbe rendere più esplicito la natura di tale relazione?”

La prostituta, tende ad essere esattamente qualsiasi cosa voglia il suo cliente o per meglio dire si rende disponibile, per un verso a non disturbare la sua immaginazione, per un altro, con il proprio corpo, a dare al cliente la certezza che la sua immaginazione è paradossalmente cosa vera. La prostituta ha un “vero corpo”. Proprio perché questo corpo soggiace, si presta a ciò che il cliente gli chiede – si presta non senza trattative, non senza una certa resistenza, e questo effettivamente aumenta le analogie con ciò che accade nell’orizzonte del linguaggio – consente a costui di essere contemporaneamente totalmente solo e immaginariamente totalmente in compagnia. Nel senso che la prostituta, che è una donna che non è niente, è l’approssimazione massima, anche se totalmente immaginaria, ad una donna che sia tutto. Se si vuole, con una velocizzazione verso un lacanismo che potrà sembrare di genere, ma crediamo, tutto sommato, non privo di dignità, proprio perché “non c’è rapporto sessuale” si crea lo spazio perché ci sia, seppure in maniera totalmente immaginaria, un puro rapporto sessuale. Perché ciò che in qualche modo il cliente compra è la relazione sessuale con in più, – come dimostra tutto il repertorio di finti orgasmi, di finti compiacimenti, di apprezzamenti sulle prestazioni maschili che rientra nel repertorio tradizionale delle prostitute – la finzione di un rapporto, ma la finzione di un rapporto non con una persona, ma con la Donna. La Donna ovverosia come quella che si pensa desidererebbe potersi offrire tutta al desiderio dell’uomo che in realtà la sperimenta sempre come non tutta, e che, soprattutto come sappiamo sperimenta sempre come nel rapporto sessuale o c’è il rapporto o ci sono coloro che sono in rapporto, ma a questo punto non c’è rapporto sessuale. Insomma la prostituta è fondamentalmente pagata per far credere che il rapporto sessuale esista e che conseguentemente quel tanto di cannibalico che c’è nella relazione sessuale per la quale l’altro è lì totalmente presente, totalmente a contatto, totalmente anche incluso, sia in un certo senso assolutamente vera. Sotto questo profilo si potrebbe quasi dire che quello della prostituzione è un rapporto sessuale perfetto in cui il cliente può essere perfettamente solo e credersi proprio per questo in rapporto pieno con la donna intesa come il partner sessuale rispetto al quale egli stesso può diventare tutto.
“Proseguendo sulla linea discorsiva finora da lei tracciata si potrebbe forse affermare che il sesso a pagamento esibisce una forma di organizzazione e gestione economica dell’energia sessuale, in particolare maschile?”

All’altezza di quanto detto la prostituzione, nella sua dimensione storica e antropologica, segna il suo rapporto intrinseco con il mercimonio visibile in un certo senso nell’economia, presentandosi come una sorta di parte maledetta di essa, ma in quanto tale, anche costantemente funzionale ad essa.
L’immaginazione che ha giustificato per tanto tempo l’esistenza, ad esempio, nel contesto della nostra modernità, delle case di tolleranza era che queste coprivano lo spazio di un disavanzo tra la capacità di organizzazione positiva dell’energia sessuale nel contesto delle nostre relazioni sociali e un sovrappiù di questa, un sovrappiù di sesso, un sovrappiù di immaginazione, un sovrappiù di desiderio trasgressivo. L’immaginazione ottocentesca ci presenta l’esperienza delle case di tolleranza come condizione di buona manutenzione della relazione matrimoniale dove evidentemente gli aspetti insoddisfacenti o semplicemente di radicale alterità di questa rispetto ad una dimensione di soddisfazione erotica, venivano in qualche modo affidati ad una pratica specialistica sulla quale vegliavano contemporaneamente gli apparati della legge e i controlli medici. Medici e poliziotti, in definitiva, che trovano sempre in direttrici e direttori di bordelli degli interlocutori, come in tanta consuetudine letteraria, molto professionali e in moltissimi casi sfrenatamente moralisti. Insomma la stessa prassi di portare i giovani maschi nelle case di tolleranza rifletteva più o meno una immaginazione da servizio sociale dove beninteso gli operatori del servizio sono gli organizzatori e gli sfruttatori della prostituzione. Qui le prostitute sono tutt’altro che prive di una loro capacità di iniziativa ma questa passa attraverso l’esasperazione femminile di sottomissione che, solo attraverso un coglimento strategico delle ragioni del sistema in cui la sottomissione si determina, può, in parte, rovesciare la loro condizione. Esse devono agire costantemente attraverso l’immaginazione dei loro clienti, devono per così dire agire attraverso i guanti di amianto, come si diceva una volta, di ciò che si sente e si pensa di loro, devono cioè in altri termini condannare il maschio a subire le conseguenze estreme della natura mistificata dell’identità che proprio nel rapporto con le prostitute cerca una propria conferma.
Oggi, in particolare il rapporto tra il cliente e la prostituta ha specializzato a tal segno quell’effetto di realismo drogato di cui si parlava prima, da essere divenuto palesemente un rapporto virtuale. Conseguentemente la prostituita diventa anche veramente l’erogatrice di un corpo vero che però non ha ormai più bisogno di esaurire in toto la sua personalità. Con ciò voglio dire che un tempo la prostituta doveva fare solo la prostituta; non a caso il grande personaggio letterario dell’avventuriera, era in qualche modo quello in cui una dimensione di prostituzione veniva in realtà ibridata con quella della seduzione: la grande avventuriera è essenzialmente una donna che, come le prostitute dà il suo corpo in cambio di denaro e di altri vantaggi ma mette in scena non soltanto il suo corpo finto-vero ma anche la relazione amorosa finto-vera, consente all’uomo di essere sedotto, ma solo per una convenzione, un po’ come avviene a volte nei rapporti di tipo sado-masochistico dove qualcuno diventa il padrone ma perché il suo padrone gli comanda di essere padrone per alcuni minuti, in alcune circostanze, facendo esattamente determinati gesti che sono quelli che il suo padrone gli comanda di fare nei suoi confronti.
“Lei ha affermato che, oggi, la prostituita diventa l’erogatrice di un corpo vero che però non ha ormai più bisogno di esaurire in toto la sua personalità. Sembrerebbe darsi qui la modalità attraverso cui si configura la relazione prostituita, sia dalla parte del cliente che da quella della lavoratrice del sesso e più specificatamente quella migrante, entro l’economia post-fordista.”

Oggi assistiamo ad un paradossale trionfo dell’individualismo attraverso la scomposizione dell’individuo. Detto velocemente e in maniera un po’ irriverente, la condizione di coloro che letteralmente non hanno più un lavoro, una identità attraverso il suo lavoro, ma diventano gli erogatori di una serie di prestazioni plurime che li scompongono come lavoratori e li immettono in reti diverse, vale anche per coloro che lavorano rendendo disponibile il proprio corpo alla visione e al contatto di altri: il loro lavoro è una prestazione, una dimensione, che in molti casi può convivere con altre. Quindi, detto brutalmente, la prostituta può essere anche altre cose, anche perché nessuno, si capisca, vuole prendersi ormai più cura di lei come prostituta. Anche uno schiavo, quand’è schiavo di qualcuno è, se pur in condizioni abbiette affidato alla sua cura per cui si può pensare che esista qualche tipo di interesse a far vivere uno schiavo anche se schiavo. Con uomini presunti liberi non è così; se oggi esiste verso le prostitute una qualche modalità di cura essa si presenta in una forma neo-schiavistica che però in quanto tale non può avere, al momento, nessuna sanzione sociale positiva, nessun riconoscimento istituzionale. In questa situazione neo-schivistica non è immaginabile che ci sia una prostituta che sia solo una prostituta. Nel caso delle cosiddette nuove schiave, come direbbe Don Benzi, con un po’ di enfasi ma tutto sommato con una certa ragione, assistiamo piuttosto ad una operazione di scotomizzazione di una porzione delle risorse umane delle persone che sono schiavizzate che coincide con la cancellazione, per motivi di comodo, di tutte le altre. Cioè le prostitute sottomesse al racket, violentate, bastonate ogni qualvolta non raggiungono determinati livelli di rendimento, addirittura uccise o sfregiate se puntano a emanciparsi, sostanzialmente non sono la riedizione dell’antica prostituta chiusa nei bordelli e neanche della vecchia e tradizionale “battona”; sono letteralmente individui ridotti violentemente, un po’ come accade nel traffico degli organi, ad una parte del loro corpo a cui tutto il resto viene sacrificato su tempi relativamente brevi. Casomai è questa capacità di fare a pezzi gli uomini distanziando sempre la scena della macelleria e ponendo costantemente in primo piano l’autoreferenziale razionalità con cui avviene l’asportazione dell’organo, che caratterizza per tanti versi l’uso globalizzato delle masse umane e che innerva anche quella sorta di grande operazione di sezionamento, selezione, avvio a destinazioni diverse che ogni varcamento di confine nei percorsi della migrazione, che agisce a questo punto anche sul corpo della donna. Allora ciò che rende ancor più drammatica la situazione per le donne che si ritrovano in questo tipo di condizioni è che non c’è nella logica di coloro che governano il fenomeno della prostituzione nessun motivo di occuparsi della sopravvivenza fisica e psicologica di coloro di cui si servono. Oltretutto un tempo le prostitute erano, bene o male, una declinazione del femminile così come si mostrava nella terra e nel territorio in cui si svolgeva la vita di una comunità. Oggi, la produttivizzazione in larga scala di prostitute di provenienza extracomunitaria sembra garantire, un po’ come avviene per la comparizione nei nostri mercati alimentari di prodotti un tempo stagionali, il provenire dal nulla e l’andare verso il nulla di queste persone, letteralmente sessi e attributi prelevati da un contesto lontano, mediati qui, per un puro consumo. Non a caso, soprattutto per ciò che riguarda le prostitute di colore, la fantasia della donna senza testa, la fantasia della donna senza residui di fisionomia personale, che a volte produce anche l’esito da serial killer della decapitazione della prostituta, è indubbiamente un ingrediente decisivo di questo successo. Non è un caso che spesso emerga nella forma del sentimento di colpa l’evidenza della natura immonda del desiderio che spinge ad una fruizione di questo tipo. E’ il caso del tipo che si suicida perché è stato scoperto nell’intrattenere rapporti con una prostituta di colore. È così che si giustifica la fantasia nella comunità ospitante la migrazione, del possibile rapporto tra un maschio della società ospitante ed una prostituta che rompendo la convenzione del rapporto prostituito diventi una storia personale; fantasia, questa, lecita, o meglio comprensibile, perché in qualche modo interroga la natura del bisogno che spinge a cercare questa compensazione. In tutto questo sarebbe interessante sviluppare, perché potrebbe avere un effetto di contrasto interessante, l’aspetto della prostituzione maschile che ha ovviamente implicazioni molto diverse ma che però potrebbe contribuire ad articolare il quadro di questo ragionamento.
“La persistenza e regolarità della comparsa della prostituzione lungo il corso della storia, la sua sacralizzazione in epoche antiche, gli arcani silenzi che la abitano, sembrano indicarci che tale fenomeno riguardi proprio la parte più intima e più inesplorata della relazione sessuale, della relazione tra il maschile e il femminile. In che senso, dunque, interrogare la prostituzione significa aprire la possibilità di dire qualcosa sopra la verità delle relazioni tra i sessi?”

Ciò che rende effettivamente interessante l’analisi del fenomeno prostituzione è il suo farci rimbalzare al cuore delle questioni legate al tema dell’organizzazione complessiva dei rapporti tra sessualità, sistema dell’identità individuale e sociale e, detto in modo sbrigativo al tema classico: sessualità e linguaggio. Il rapporto sessuale prostituito è un rapporto all’altezza del quale si producono grandi silenzi. La stessa esistenza di un linguaggio che riguarda nella forma di una confidenza ritenuta tradizionalmente e socialmente lecita e nello stesso tempo non troppo presentabile, il modo di parlare di queste cose, costituisce in realtà da sempre una protezione del silenzio in cui sprofondano sia la prostituta che il maschio a ridosso di questa esperienza. L’antica natura sacra della prostituta tutto sommato è dura da togliere, lo si può nell’ordine delle cose che si conviene di dire, lo si può nell’ordine della nostra cultura, ma in certo senso è altrettanto tenace nel cuore silenzioso di quanto accade. La grande sapienza del rito antico che ci parla, attraverso la figura della prostituta sacerdotessa, di un possibile rapporto sessuale ritualizzato al di fuori di una relazione matrimoniale, al di fuori di una conoscenza reciproca, al di fuori di ciò che chiamiamo rapporto, ci segnala come a quell’altezza, la relazione prostituita non si presentasse semplicemente come soddisfazione routinaria di una istanza sessuale ma quale accesso attraverso il femminile o nel femminile a qualcosa che radicalmente supera o quantomeno a qualcosa che radicalmente non si riduce ad un che di individuale. E’ ciò che, alla fine, sapevano tutto sommato anche quei frequentatori dei bordelli poveri di un tempo, che si accostavano all’esercizio sessuale più o meno senza nessuna tromba militaresca ma con la stessa disponibilità a far fatica con cui andavano a fare le operaie o i manovali. Come dire che lo sperma è anche qualcosa che un maschio porta in sé e che lo attraversa. Egli è nato da dello sperma, farà nascere dei figli da dello sperma e questa cosa è legata in maniera strettissima al fatto che si nasca e si muoia. Questa cosa si lega all’esistenza della donna, la donna che fa nascere, la donna con cui si fanno dei figli e tutto sommato le donne che sono inevitabilmente presenti come prefiche in un qualsiasi funerale vagamente ben fatto almeno in quasi tutte le culture che conosciamo fino a qualche tempo fa. Di donna si nasce e si muore. E che questo istituisca tra il maschio e la donna un rapporto che va in un certo senso al di là di una relazione che noi chiameremmo tra persone è una cosa che ha una sua forza. Per questo la convinzione che agisce nel maschio e che sostanzialmente decide che nel poco tempo che ha avrà una relazione sessuale, l’avrà in certo modo, e l’avrà con una donna vera che peraltro gli dirà di sì a tutte le sue immaginazioni, cioè questa finzione per cui si avrà un rapporto con la Donna non come essere umano, con tutto il suo complesso di questioni riguardanti la personalità, il desiderio suo o altro che intrappolano la vita e che creano costantemente il problema di capirsi, insomma la possibilità di avere un rapporto sessuale con una donna che non va capita perché pagata per liberare l’uomo dal problema di capirla, o di doversi preoccupare di lei – ha paradossalmente rapporto con qualcosa di profondamente simile e di diverso, cioè in qualche modo un rapporto con il femminile e basta. Enfatizzando, la figura spesso della prostituta sacra inserisce non a caso un elemento antico, cioè una sapienza rituale, laddove la prostituzione così come la vediamo modernamente è una continua attenuazione del rito, una continua sostituzione del rito casomai con coazioni erotiche, con neo-ritualismi arbitrari che sono finzioni della presunta libertà personale del compratore. Per cui in un certo senso c’è qualcosa che al fondo riguarda questo essere sempre attraversati al cuore di ciò che sembra essere la nostra individualità da qualcosa che la trascende. La relazione prostituita ha una grande forza proprio perché essa offre un puro rapporto sessuale, e sa che il rapporto sessuale non c’è. La nostra esistenza fa molto fatica ad organizzarsi a partire da questo riconoscimento e chiede non a caso la coincidenza, richiede che il fatto che il nostro piacere sia il godimento dell’altro significhi necessariamente l’unione. In effetti molte convinzioni fanno pensare che nello spazio di un libero agire degli individui, le relazioni sessuali possano essere coincidenti con le relazioni affettive, con l’organizzazione pubblica e privata dei propri tempi, delle proprie propensioni, insomma l’idea che si possa in un certo senso compiutamente capirsi, l’idea della fusione in uno della coppia, l’idea spesso perniciosa per i rapporti di coppia che la coppia sia autosufficiente, l’idea tutto sommato di essere ciascuno il proprio io che è un’idea, quando non associata all’intuizione del fatto che non è così, pericolosissima e prefiguratrice di esiti paranoici. In questo senso la prostituzione testimonia di una slabbratura radicale al cuore di una riduzione umana dell’uomo. Ciò che in qualche modo continua a parlare attraverso di essa, in una forma terribile e barbarica, è la sostanziale inadeguatezza di una interpretazione umanistica dell’uomo, l’idea cioè che esista una figura di uomo all’altezza del quale, se non ci si mettesse la storia, l’economia, il capitalismo, le ingiustizie del mondo quadrerebbero tutti i conti e l’uomo diventerebbe vagamente e leonardescamente perfetto e i sessi si integrerebbero felicemente, così felicemente da integrare anche il mondo gay, visto che non bisogna far violenza a nessuno, insomma la realizzazione di una felice libertà. La prostituzione invece continua a marcare il fatto che non è così e nello stesso tempo che la nostra ostinazione a cercare di soddisfare il nostro desiderio, paradossalmente rinunciando a tenerlo vivo, il nostro bisogno di concepire il desiderio sempre solo sotto il segno della sua soddisfazione, dell’oggetto che deve, catturato, risolverlo, non fa che riprodurre la necessità delle prestazioni che sono proprie della prostituzione. C’è sempre stata in qualche modo nella prostituzione una vena, di cui un certo ambito cattolico di un senso creaturale si è impadronito, nella quale figurava un elemento di umiltà, come dire è perché siamo peccatori, è perché siamo malfatti che andiamo con le prostitute e nello stesso tempo le stesse prostitute sono anche delle martiri che ci sono perché siamo fatti così. Condizione che faceva sì che a volte appunto l’accesso alla prostituzione fosse l’accesso quasi ad una sorta di cilicio. Insomma anche della propria sessualità bisogna occuparsi, un fardello come altri. Un tempo poi, come noi sappiamo, e anche adesso per molti versi, un fardello concreto fatto anche e immediatamente di malattie, di disastri fisici, di sifilidi, di gonorree, insomma tutta la letteratura che si è occupata in maniera spesso grandioso di prostitute dall’arciprete di Hita, Shakespeare, De Rocha, lussureggia con un grande scenario gotico-barocco, delle manifestazioni esantematiche della malattia sessuale o comunque ritenuta connessa con il sesso. È un passaggio doloroso e rischioso al quale ci si sottomette per qualcosa che si trova in noi stessi dotato di una forza che solo per orgoglio identifichiamo con il nostro io. Ma questo in realtà attraversa, possiede, e certo anche sostiene, -tanto è vero che evidentemente sul suo aspetto generatore si instaura ovviamente la significazione del fallo, la figura del Padre- l’organizzazione paradossalmente del contenimento del differimento del godimento nella costruzione della civiltà, insomma il nostro non essere solo questo ma è sintomatico che essenzialmente su questo che deve costruirsi non solo questo. Allora lo spazio della prostituzione diventa il luogo in cui quest’ordine viene trasgredito per potere essere anche contemporaneamente conservato. Però questo fa sì che il passaggio attraverso la prostituzione sia anche un passaggio attraverso un nucleo decisivo di questo ordine. Da qui in qualche modo questo silenzio che sta al cuore del rapporto di prostituzione anche quando questo è serializzato o ridotto, anzi forse proprio allora, ridotto a cosa senza importanza rinvia a qualcosa che ha il sapore di un nodo teologico.