Lingue madri, lingue padri

Concepire il concetto di intercultura come una formazione “congiunturale” non è un modo per sminuirne l’importanza quanto piuttosto per accentuarla.
Stiamo assistendo oggi per più vie a radicali mutamenti di ciò che ha caratterizzato la riflessione sul rapporto tra culture, cresciuta nell’epoca della globalizzazione. L’intercultura si chiarisce sempre più come un particolare tipo di sguardo che riconosce nelle emergenze del presente una pluralità di eventi in cui tornano in gioco le fattezze di ciò che abbiamo chiamato le culture, senza distogliere l’attenzione e la disponibilità nei confronti di ciò che di nuovo vi appare e tendendo a concepire la complessità di queste congiunture come ricchezza e occasione positiva.

Uscendo da un pur meritevole e forse indispensabile pregiudizio positivo nei confronti della policroma varietà del mondo che ha caratterizzato meriti e demeriti del multiculturalismo, si tratta oggi di cogliere, attraverso un intero sistema di esperienze intellettuali, la connessione intima che lega il quadro di problemi che si profila ogni qualvolta ci si incontri tra “diversi” con quello delle essenziali trasformazioni che sta vivendo ciò che sembrerebbe rappresentare l’elemento di stabilità: l’insieme delle identità accertate, il complesso di assetti organizzativo sociali, istituzionali, vissuti come tradizionali e l’insieme delle loro interiorizzazioni nei nostri luoghi comuni, giudizi, pregiudizi, stili di lettura del quotidiano.

Si pongono ora con particolare urgenza alcune domande: a quali condizioni (riguardanti l’organizzazione complessiva della vita sociale nei contesti economici e culturali predominanti) è possibile concepire non solo come positivo pregiudizio ideologico, ma come matrice di una serie di comportamenti la ricchezza della bio-diversità culturale come una condizione effettivamente positiva? Quali strutture discorsive e quali forme di organizzazione del lavoro intellettuale e delle sue applicazioni può realmente assumere la varietà dei mondi simbolici, degli universi linguistici, delle costanze tradizionali, che ritroviamo nei nostri spazi di vita, come un modo di una propria positiva trasformazione ed espansione e non piuttosto, come tutt’oggi accade – e potrebbe in futuro accadere, in misura anche maggiore – come un coacervo di inutili complicazioni? Come evitare che tutto questo si presenti nella forma di viscosi, anche se venerandi, condizionamenti da sacrificare alle esigenze di semplicità funzionale, dal cui soddisfacimento dipenderebbe la continuità dello sviluppo, sia nella visione che ne pretenderebbe l’avanzamento incontrastato, sia in quella che suggerirebbe ripiegamenti o moderazioni virtuose sulla base di ravvedimenti ecologisti di significato tutto da chiarire?

In questo quadro vengono a situarsi l’indagine e la riflessione di cui riferiamo qualche primo punto, dedicata ad un tema o, se vogliamo, a una connessione tematica che molto si presta a esemplificare in concreto gli interrogativi appena formulati. La ricerca che abbiamo avviato procede dall’incrocio di due questioni, palesemente collegate tra loro, ma in grado ciascuna di istituire ulteriori legami con altre dimensioni meno apparentemente scontate del ruolo dell’intercultura, sia nella dimensione dei suoi effetti teorici, sia per quanto attiene agli stili di lavoro che vivono nelle pratiche suscitate dalle situazioni materiali in cui si riproducono i problemi di cui essa si occupa.

La prima questione che senz’altro individua un’ottica particolarmente ambiziosa del concepire in una prospettiva interculturale il problema dell’accoglienza socialmente fruttuosa dell’emigrazione è rappresentato dall’ipotesi di concepire la prima lingua (quella, per dirla provvisoriamente, di provenienza dei migranti) come una risorsa culturale da garantire ai loro figli. Di qui il problema, che in molti modi e con molti tipi diversi di giustificazione sta venendo in concreto affrontato, dell’insegnamento della prima lingua a coloro che siano giunti in un Paese di quell’Europa meta d’emigrazione (e dell’Italia in particolare) giovani o giovanissimi a seguito dei loro genitori o che qui siano nati e stiano crescendo.

È evidente come quest’ordine di questioni richiami un secondo tema, quello delle seconde e terze generazioni e dell’eccezionale valore sintomatico che verrà ad assumere il modo con cui ci si saprà relazionare con esse per la qualità complessiva della crescita dei sistemi sociali e della realtà civile culturale del Paese che ne sarà il teatro.

Il primo tema, che è quello da cui ci è parso utile partire come gruppo di lavoro, si presenta abbastanza immediatamente, proprio se assunto alla luce delle consapevolezze più esigenti del lavoro interculturale, come un tema ricco e per così dire avvelenato. Appena posto con la dovuta attenzione ai suoi possibili concreti svolgimenti nelle realtà che possiamo constatare, esso si svolge in uno sciame non facilissimo da governare di problemi che identificano piani diversi, bisognosi di essere ricondotti a un discorso unitario, ma in un modo non semplicisticamente forzoso. Innanzitutto va valutata e interpretata senza pregiudizi la prima obiezione che potrebbe essere avanzata, non solo da autoctoni spazientiti per il grado presuntamente eccessivo di attenzioni accordate agli immigrati (ai quali una certa retorica ritiene si conceda sempre troppo e sempre a danno dei nativi), ma anche di alcuni tra gli stessi immigrati, convinti della necessità di adempiere alle forme di assimilazione più decise e definitive a quella richiesta di integrazione che viene loro riproposta come mai sufficientemente adempiuta in occasione della rivendicazione da parte loro di un qualche diritto di cittadinanza.

L’obiezione, ovviamente, riguarderebbe la natura o inutilmente lussuosa dell’apprendimento di lingue non praticamente utili nel contesto di immigrazione, ma anche e più sottilmente il rischio che al figlio di immigrati venga fatto carico della rappresentanza, forse anche onerosa e limitante, di un retroterra culturale ormai non suo, che gli verrebbe richiesto di mettere in scena quasi per una preoccupazione di tipo antropologico-museale.

Va detto che l’obiezione ha una sua indubbia serietà perché solo la previsione di una “capacità di sistema” di valorizzare adeguatamente un rigoglioso pluralismo linguistico sottrae tale progetto ai rischi appena indicati. Al di là di quanto ci propone il caso specifico e pure sempre più corposo dei figli degli immigrati, bisognerebbe cioè pensare il problema della pluralità delle lingue, ma anche dei registri linguistici, cioè delle forme di ideazione ed espressione originale attraverso il linguaggio, in rapporto all’importanza che questa pluralità può avere nel determinare la qualità dell’organizzazione sociale, della partecipazione alla produzione, alla qualificazione dei consumi, insomma a una concezione ambiziosa della natura delle relazioni all’interno della convivenza.

Significa in altri termini ritenere che ci possa essere complessità senza che questa debba necessariamente significare collasso organizzativo, babele comportamentale, disordine sociale, perché quanto potrebbe dare motivo a questi sviluppi degenerativi può essere invece riportato alla condizione di apporto positivo: qualcosa di cui ci parlano, anche se solo parzialmente, nozioni come quelle di capitale sociale o di risorsa umana.
In tale prospettiva si presentano ardue da gestire, ma comunque utili per la loro ricaduta complessiva, le questioni che anticipavamo. E possono immediatamente complicare la proposta dell’insegnamento della lingua prima.

Qual è la lingua prima? Quante convenzioni intellettuali sono in gioco, buone e meno buone, ogni qual volta riteniamo di essere in grado di dare una ben definita risposta a questo quesito?

Qual è ad esempio (e introduciamo così una riflessione che nel corso di queste pagine verrà esposta più analiticamente come indicazione di una tappa del nostro percorso) la prima lingua che andrebbe insegnata a un giovine di origini magrebine? La lingua che è stata la prima di chi? Dei suoi genitori o nonni, della città o regione in cui questi vivevano, dove magari rappresentavano una minoranza linguistica? La lingua che unificava amministrativamente il loro Paese, immigrata essa stessa al seguito della potenza coloniale? L’arabo coranico, così legato a una dimensione centrale dell’esperienza complessiva, ma anche non parlato e non scritto dalla stragrande maggioranza degli abitanti di quegli Stati? L’arabo che chiamiamo standard, che certo sta venendo ora reso pervasivo in tutto il mondo arabo dalle emittenti televisive, ma che sino ai giorni nostri è stato prerogativa del mondo accademico e di un giornalismo sostanzialmente di élite o di una ufficialità statale abbastanza circoscritta? Una delle molte varianti dialettali, indubbiamente in molti casi vere e proprie patrie linguistico affettive, ma certo estremamente discriminanti? O addirittura il berbero che pure resta la lingua orgogliosamente rivendicata come propria da ampie porzioni di quelle società, e in questo caso quale delle molte varianti, tutte in varia misura legittimate a ritenersi non secondarie in un contesto in cui mai il berbero è divenuto la lingua ufficiale di una realtà politica?

Sembrerebbe una sequela di quesiti finalizzata a dissuadere dal perseverare nell’intento, lasciando intuire che una vera prima lingua non sia alla fine identificabile, che vi sia un complesso apparato di lingue diverse e legate a diverse situazioni esistenziali che ne dettano l’uso, in differente modo presenti – a volte tutte assieme, a volte qualcuna soltanto – nell’esperienza concreta di un singolo. Per non considerare il giovane o giovanissimo di seconda o terza generazione, che a volte nemmeno ha un’esperienza diretta di una lingua prima, se non per qualche intermittente episodio familiare e che può anche presumere di non dovere in futuro frequentare in misura significativa l’ambiente di provenienza dei propri genitori.

In realtà proprio tale insieme di problemi può guidare verso la costruzione di un ragionamento su questo tema, che ne sviluppi con larghezza le potenzialità complessive, che metta cioè in evidenza la relazione che lo collega al quadro generale delle questioni che riteniamo proprie del lavoro interculturale.
Nello scenario presente non è indifferente decidere che il mondo culturale e quindi l’atmosfera linguistica del contesto di provenienza dei migranti debbano essere considerati come tutt’al più oggetto di una rispettosa memoria, ma non come una dimensione del loro presente esperienziale, oppure assumere quel retroterra non tanto come un passato che il successo dell’assimilazione renderebbe rapidamente remoto, ma come una componente attiva del presente, non solo quindi nell’organizzazione del lascito memoriale (esposto, se ridotto solo a questo, a non innocue, perché incontrollate, elaborazioni mitologiche), ma anche come connessione aperta e costantemente transitabile con la realtà presente, sempre più coinvolta nei processi da cui discende la nostra stessa evoluzione, dell’ambiente d’origine.

È lecito quindi chiedersi se il discorso sulla lingua prima non debba essere costruito alla luce dell’esigenza di affidare a questo apprendimento l’obiettivo di valorizzare il rapporto con quanto l’ambiente originario sta divenendo oggi, sia nella sua dimensione geografica tradizionale, sia in quella dell’emigrazione.

Va riconosciuto in modo attivo il fatto che si possano dare contemporaneamente, per lo stesso individuo e per gli stessi gruppi, più identità e che ciò non debba necessariamente coincidere con scissioni psicologiche e culturali mutilanti o comunque negativamente condizionanti. Al contrario ciò può rappresentare lo stimolo per una concezione e una pratica dell’ordine sociale più accogliente e più capace di realizzare un guadagno di qualità di vita, proprio perché più capace di confrontarsi realisticamente con le forme che viene a prendere oggi la configurazione della quotidianità degli scambi tra mondi di fatto separati solo in una loro attardata immaginazione.

A ben vedere, come spesso accade, la fenomenologia della migrazione si presta a mettere in risalto problemi che sono propri al presente del nostro mondo e che esso tende a lasciare spesso sotto traccia. L’esperienza dell’identità plurima è più vistosa e anche più violenta nel caso del migrante, ma non è per nulla estranea alla condizione dell’ “italiano da sempre”, che si ritrova scomposto in figure che assumono entità distinta, affidate a logiche che non sembrano orientate a ricomporne semplicisticamente l’unità. Anche in questo caso la condizione del migrante fa uscire di latenza una migrazione culturale che riguarda largamente anche i più stanziali.

Ma l’assumere in tutta la sua portata la questione del riconoscimento di questa nuova dimensione dell’identità comporta una messa in discussione di molti fondamentali categorie e concetti dai quali discende gran parte del nostro patrimonio di forme giuridiche e politiche. Significa concepire diversamente il sistema dei confini, ma soprattutto registrare la diversa configurazione dei soggetti che questo sviluppo sta rideterminando. In altri termini si tratta di riconoscere ed elaborare concettualmente regole e diritti là dove oggi siamo soliti vedere solo eccezioni, complicazioni, casi incerti e assenza di legalità, ripensando quindi spazi e tempi della nostra autorappresentazione.

Di questo auspicato sviluppo dovrebbe essere parte integrante l’acquisizione da parte di quanti provengono dall’esperienza della migrazione di un’attitudine rivolta a recuperare o meglio a costituire un momento di articolazione unitaria fra le varie e spesso, come si è detto, non comunicanti dimensioni del loro vissuto, a cominciare dal vissuto linguistico, ad affrontare cioè quelle questioni che rischiano di restare taciute, limitando l’emergenza soggettiva e, quindi, alimentando l’offerta di identità fittizie.

È su simile terreno che è possibile concepire la lingua prima come quella alla quale il migrante chiede di saper dire e di saper fare ciò che, in parte, egli ha detto e fatto in una lingua non sua. Quindi una lingua che verrebbe proposta ai figli dei migranti per poter partecipare all’elaborazione odierna di una componente identitaria nuova e antica assieme, che consenta loro di non essere passivi o solo immaginariamente attivi nei confronti dei processi di cui sono protagonisti, offrendo così a quanti condividono con loro gli spazi della nostra realtà (in questo caso l’Italia, con le sue congiunture, potenzialità e limiti compresi) una risorsa in più per leggere la propria congiuntura e produrre le scelte di più vasto respiro.

Si tratta in altri termini di agire sulle rigidità, sulle semplificazioni debitrici della loro apparente linearità a dolorose rimozioni, sullo schiacciamento funzionalista dell’esperienza del linguaggio, per rimettere in discussione quella dittatura della tendenza imposta dal passato, che limita la qualità della risorsa umana. Spesso i giochi congiunti delle diverse lingue e dei codici sociali ad esse collegate in molti spazi tradizionali hanno connesso il plurilinguismo con l’effetto bloccante di rigide gerarchie situazionali, proiezione a loro volta di altrettanto ferree gerarchie sociali.

Vale la pena di ricordare la suggestiva e stimolantissima rievocazione che Mohammed Arkoun in una sua recente raccolta di saggi (Arkoun 2005) ci propone della stratigrafia spaziale, sociale e linguistica del suo originario villaggio berbero, Taourirt-Mimoun, dove la presa di parola in un contesto pubblico era, sino ai primi anni dell’indipendenza algerina, regolata da un rigoroso sistema di precedenze accordate alle singole famiglie in relazione all’antichità del loro insediamento e dove l’accesso al francese e all’arabo, le due lingue che collegavano il mondo del villaggio a dimensioni ulteriori e alle autorità e ai poteri che in esse si esprimono, era mediato da regole che ne riservavano la possibilità solo a quanti avrebbero, valendosene, confermato la stratigrafia cittadina di sovra e sotto ordinazione tra famiglie e gruppi, a discapito dell’intelligenza dei singoli individui.

La narrazione di Arkoun lo vede giovane cabilo laureato in lingua e letteratura araba ad Algeri condividere, seppure con strategia diversa, con l’amico (e nelle gerarchie locali sovraordinato) Mouloud Mammari, celebre intellettuale cabilo laureato in lettere in Francia, il tentativo di frangere il sistema arcaico di precedenze e divieti, ma anche di recuperare il mondo tradizionale che esso custodiva come l’oggetto di uno studio e di una narrazione appassionati, capaci di rovesciare in forza emancipatrice e in stimolo intellettuale l’energia vitale presente in ciò che pure si mostrava come rigidità conservatrice e resistenza al mutamento.

Questo testo di Adone Brandalise, tratto dal volume a cura di G. Mantovani, Intercultura e mediazione. Teorie ed esperienze, Carocci, Roma, 2008, è pubblicato con l’autorizzazione degli autori, n.d.r

Bibliografia
Arkoun, M. (2005), Humanisme et Islam. Combats et propositions, Vrin, Paris. Il testo citato è stato da noi presentato in traduzione in Trickster n. 5, Per un canone interculturale?, col titolo «Con Mouloud Mammeri a Taourirt-Mimoun. Dalla cultura orale alla cultura erudita».