Riverberi di Serendipity

Pubblichiamo l’intervento del Prof. Brandalise uscito in “Architetti Notizie”, n. 03.11, 2011, p. 25.

Buona lettura

 

“Io non cerco, trovo”. L’affermazione di Picasso, come noto, piacque molto a Jacques Lacan che ritenne di doverla assumere come una sorta di sintetica allusiva auto-interpretazione, o, meglio ancora, come un enigma tutto sommato cordiale attraverso il quale favorire l’accesso del lettore e prima ancora dell’uditore dei suoi seminari al movimento più intimo della sua pratica. Se nel motto picassiano potrebbe apparire dominante l’intenzione, non priva di compiaciuta oltranza, di ostentare l’ulteriorità del genio rispetto a tutte le propedeutiche e a tutte le ascesi propiziatorie della riuscita artistica, in realtà – ed è questo che lo psicoanalista francese captava ai propri fini – a parlare nella dichiarazione è soprattutto la semplice quanto arduamente dicibile epifania di un’evidenza.

Il tempo in cui l’opera d’arte, ma in generale ogni effettivo evento, dilata la propria realtà resiste a qualsiasi tentativo di ridurlo all’esito di una sequenza di operazioni come ad una somma di parti. Se la narrazione più divinamente onnisciente dei percorsi vissuti dall’artista, dal pensatore, o comunque da chi possa essere imputato di un gesto intrinsecamente creativo potesse fornirci storie e preistorie complete di quanto motiva tanto interesse, comunque ci troveremmo ad incontrare qualcosa d’altro rispetto a quanto avevamo supposto come il segreto dell’opera e del suo operare. E anzi, forse, se in qualche modo la nostra aspirazione dovesse scoprirsi almeno in parte esaudita, sarebbe perché a sua volta quel nostro esercizio avrebbe consentito il darsi di un esito irriducibile al suo progetto, divenendo così partecipe di ciò che sarebbe ad ogni modo un obiettivo mancato della sua ricerca in virtù di una affinità di eventi, ovvero perché qualcosa di diverso da ciò che si cercava è stato trovato, più effettivamente desiderato di quanto si intendeva trovare. Si diceva “evidenza”, perché ciò che caratterizza quanto ci si mostra come il trovato è la sinergica contemporaneità dei tempi che vivono nella sua struttura, necessaria e immodificabile per un verso, ma d’altra parte, proprio per questa sua perfezione, assolutamente aperta.

A molti leggendo un racconto, o una poesia, o osservando un quadro, o un’architettura, sarà accaduto di sentirsi al cuore di ciò a cui assisteva, proprio perché, al di là della pur utilissima analisi condotta attraverso le grammatiche chiamate in causa come competenti alla descrizione di quegli oggetti, ciò che gli si presenta è l’evento presente in cui tutti quegli elementi si mostrano appartenere ad una stoffa che è quella che si produce quando al posto dell’oggetto avviene il soggetto che in luogo di farsi interpretare ci interpreta, chiedendoci di riverberare nel nostro pensiero e nelle nostre parole una verità che non è il prodotto di un nostro fare, ma che non accadrebbe senza di noi.

Ai personaggi di Walpole accadeva nel regno di Serendip qualcosa che nella declinazione giocosa del racconto morale rinviava – crediamo – a questo problema, invitando, ci sembra in una forma né distruttivamente scettica, né esasperatamente patetica, a diffidare di una conoscenza di sé concepita come possesso padronale di se stessi concepiti come oggetti esauribili per lo sforzo della conoscenza, lasciando spazio – quante consonanze in tal senso tra classici della prima modernità: Shakespeare, Cervantes, Montaigne… – alla percezione e al suo espandersi in riconoscimento che si fa invenzione e stile di quanto in noi c’è sempre di più e di diverso rispetto alle linee del nostro autoritratto. Forse per conoscersi veramente è necessario un saggio non sapere che ci consenta, in luogo di una pretesa fittizia conoscenza di ciò che siamo, un saperci fare con il nostro accedere. In questa prospettiva, il richiamo di Serendipity svaria dalla riflessione etica a quella sulle imprese estetiche e speculative.

Probabilmente, alcuni momenti della meditazione poetica di Rilke si prestano con un tono più assorto e meno giocoso ad illustrare tale effetto, in tutte le sue declinazioni. Si pensi a quell’intuizione che, proposta in forma già matura negli Appunti sulla melodia delle cose, diviene momento tra i più avanzati del discorso proposto dalle Lettere ad un giovane poeta. Ci riferiamo a quella etica della solitudine che si presenta non come scelta solipsistica, ma come tentativo di conoscere le radici profonde che si manifestano operare in noi quanto più siamo in grado di abbondarci all’ascolto della grande sinfonia di cui rappresentiamo sempre una nota soltanto, ma singolare è necessaria: ciò che consente di riconoscere la natura velleitaria del rapporto che s’instaura tra individui quando essi cercano di congiungersi sulla base della loro presunta assolutezza, prescindendo quindi dall’assunzione del mondo di relazioni che li connette alla radice, pur separandoli in superficie.

Rilke, non a caso, intona gran parte del suo canto maggiore al limpido stupore e alla scienza senza presunzione di potere che rivelano la natura sempre impensata di quanto rende paradossalmente più efficace e rigoroso il nostro ascolto di noi. Così nel famosissimo finale della decima Duinese, dove la felicità si rivela non come il culmine di un’ascesa, ma come “qualcosa che cade”.

Sarebbe interessante chiedersi se nello scenario contemporaneo, ad onta della marea di oggetti che ci assedia, l’agire artistico sia da accogliere sempre meno attraverso il suo prodotto, e sempre di più attraverso il suo pervadere come flusso progettuale gli spazi della nostra esistenza,e se dalla suggestione di Serendipity si possa trarre spunto per una pratica del pensare e del progettare nella quale contemporaneamente non cedere sul nostro desiderio e non fissarsi eccessivamente sui transitori oggetti nel nostro desiderare.