Chi si salva è perduto

Riprendendo le fila di quanto è stato detto nelle precedenti relazioni, tutte per più versi coinvolgenti e stimolanti, mi soffermerò su quei luoghi che dimostrano in questo tessuto l’ispessimento di ciò che in qualche modo fa veramente problema e forse anche su quei luoghi in cui pulsa maggiormente – e qui introduco la prima figura sulla quale dovremo sostare – un desiderio che anima la mobilitazione di apparati, cui abbiamo assistito nel corso delle nostre conversazioni. Dico il desiderio perché quando si dice che “l’altro non basta” è ragionevole chiedere a che cosa non basti. Certo non basta a un desiderio che noi abbiamo ritenuto, e continuiamo a ritenere, possa essere sostenuto – i desideri essenzialmente hanno bisogno di essere sostenuti, di essere tenuti in piedi, è per questo che fondamentalmente si fingono degli oggetti – su apparati che non gli bastano. Questi apparati erano essenzialmente fulcrati attorno a delle famiglie concettuali e categoriali alla cui realizzazione dava un contributo decisivo la nozione di “altro”. In altri termini “l’altro” è l’indicatore di un complesso di matrici logiche le quali hanno prodotto le risorse di un complesso di discorsi che oggi sembrano non bastare al desiderio che ci spinge a farli. Questo elemento mi sembra sia emerso in molti percorsi, a cominciare da quelli che hanno sottolineato come, a diversi livelli di una ipotetica rappresentazione scistosa della nostra tradizione culturale, l’altro agisca sempre e innanzitutto come un poderoso strumento di costruzione dell’identità. Se volete, la formula lacaniana, che recupero al di fuori di ogni coerenza di sistema, per cui noi si avviene sempre nello spazio dell’altro, è qualcosa che rientra quasi nell’ovvio della constatazione del panorama, del detto, delle letterature e delle filosofie in un certo senso “occidentali”: l’altro è costantemente il luogo in cui noi ci costituiamo. Si potrebbe anche rappresentare il lungo periodo di un vagheggiamento di un rapporto con l’altro come un rapporto cordiale, capace di costruire un’innocenza del rapporto con l’altro, come un episodio interno a quell’esaurimento della rappresentazione di un’innocenza della metafisica, che è stato con tanta forza ribadito in alcuni grandi momenti filosofici all’inizio del nostro secolo. Perché, tutto sommato, l’altro attraverso il quale costruiamo noi stessi è uno strumento che è stato vissuto come “gloria” del pensiero filosofico. Forse, dal momento in cui si dica che quest’operazione squisitamente metafisica si può produrre soltanto dimenticando ciò che la mette in mora, ciò che la evidenzia essere insufficiente, forse allora anche l’altro diventa quell’altro che noi vorremmo riconoscere al di là delle fattezze di comodo del nostro altro. Forse l’altro non ci basta perché, paradossalmente, l’altro come figura è troppo docile, troppo domestica, troppo fatta per noi, troppo, in definitiva, appropriante e troppo poco capace di ascolto, troppo poco capace di riconoscere. Il riconoscimento come altro è innanzitutto appropriamento dell’altro come nostro possesso conoscitivo. Non c’è atto eticamente più feroce – ed occupandomi di immigrati lo so, perché è un rischio che chiunque di noi coglie di fronte ad un interlocutore apparentemente “poco attivo” verbalmente – non c’è atto più feroce di quello che dica: «io so cosa pensi, so cosa vorresti dire, anzi lo dirò io per te! Io ti conosco, so benissimo, fidati… ». E’ un po’ come dire: «Che bocca grande hai… » – «E’ per interpretarti meglio!». Però, in realtà, sappiamo che sostanzialmente, anche con tutta la buona volontà, la bocca poi si chiude e la sostanza è quella della vecchia storia: «E’ per mangiarti meglio!» e per digerirti, potremmo dire, democraticamente. L’altro diventa, conseguentemente, una figura che sostituisce ciò che non siamo noi e che riporta l’evidenza del fatto che c’è altro nell’orizzonte di un nostro possibile governo.

Quando parliamo di “politiche inclusive” il tasto prevalente, retorico e logico, parla in questo senso. Quando si parla di politiche inclusive nei confronti della migrazione, logica e retorica si danno la mano, di solito, nel fare questo discorso: «li volete distruggere? Volete farli sparire? Pazienza, possiamo assimilarli!». Non perché un processo di assimilazione sia in sé una brutta cosa, ma perché ciò che si sottolinea è la sparizione di ciò che fa alterità perturbante. Non occorrono vie chirurgiche, ne bastano di farmacologiche su di un arco temporale lungo. Ora, questo tipo di considerazione è quello da cui parto perché, in realtà, mettere in questione la competenza dell’altro ad amministrare il desiderio che ci porta ad enfatizzare la nostra insistenza su questa figura, il nostro “battere alla porta” di questa figura, ha a che fare con l’articolazione complessiva dell’orizzonte della “crisi delle scienze dello spirito”.

Non a caso la discussione si è irraggiata in direzione estetica, poetica ed epistemologica, perché queste dimensioni sono unite innanzitutto dalla loro relazione col desiderio che perturba la possibilità accademica di concepirle come ambiti o sfere, giustificate nella loro separatezza da una precostituita diversità di oggetto. Un’altra cosa che si è evidenziata, infatti, attraverso la ripresa di alcune grandi tappe dell’analitica del tempo novecentesca, è quella che potremmo definire l’evanescenza dell’antecedenza. Noi sappiamo, specialmente nel momento in cui l’altro diventa un problema, di essere da sempre preceduti da ciò che non tanto ci accoglie, ma che ci costituisce senza esaurirci. Io non ho scelto di nascere in un posto dove si parla italiano. Tutto ciò con cui io posso rivendicare una mia diversità da questa lingua, lo dirò in italiano o in qualche modo lo costruirò attraverso altre lingue in riferimento a questa. E sono comunque nel linguaggio. Il linguaggio conseguentemente, è una scoperta del novecento, non fa da portalettere a delle cose che ci siamo pensati indipendentemente da lui, anche perché noi non ci siamo costituiti indipendentemente da lui. Eppure allo stesso tempo, e questo gli stessi maestri della linguistica in qualche modo lo sapevano, non c’è un momento in cui il linguaggio esista senza di noi. Questa cosa che ci precede sempre ci è anche sempre contemporanea. Quindi, uno dei lavori che abbiamo in qualche modo compiuto in questo secolo, è stato quello di togliere progressivamente questo finto spazio-tempo in cui le cose stanno, ci sono da prima e durano, rispetto ad un altro tempo che è quello del nostro avvenimento individuale. Riuscire in altri termini – questo è stato un grande orizzonte epistemologico su cui ci si è ritrovati “desiderantemente” in molti dall’inizio del novecento – a passare da un mondo che si presume fatto di cose che stanno ad un mondo fatto di cose che accadono.

Si tratta di cogliere il rapporto con la “realtà” – uso qui un termine che in seguito cercherò di distruggere – come coglimento del tempo in cui la realtà si fa realtà. Il che significa anche porsi il problema del rapporto che c’è tra quell’essere e le cose così come sono e il nostro esserci, perché nel momento in cui noi abbiamo deciso che le cose stanno indipendentemente da noi, possiamo dire addio all’etica; c’è soltanto un po’ di morale da servi, c’è soltanto la morale dell’adattamento. Se non riesco a riconoscere almeno un delta, per quanto piccolo, di correlazione tra tutto ciò che accade e il mio accadimento, non ha senso parlare di etica.

Quindi, in altri termini, un primo movimento è quello dell’assunzione del costituirsi dell’evento umano sempre all’interno di una rete che delude la sua pretesa di avere un centro e di avere dei veri confini definitori, ovverosia quei confini che, come le mura di una cittadella, consentano di scandire nettamente il dentro e il fuori. Nello stesso tempo, occorre evitare di costruire un’auto-interpretazione attraverso la dittatura di un passato, presunto vero in quanto passato, rispetto alla realtà del presente in cui noi accadiamo. Ciò a cui, in qualche modo, ci guida una forma classica di nesso causale: noi siamo sempre il causato da qualcosa di prima. Quindi, che cosa ci spiega ciò che noi siamo? Qualcosa che è accaduto prima e che noi sappiamo. Questa era la critica nietzscheana al fenomenalismo della coscienza interna: quando io sento qualcosa dico: «quella cosa mi ha fatto, mi ha provocato questa sensazione». Ma prima viene la sensazione. Io mi fingo un passato che mi spieghi il presente e passo sempre attraverso il passato per conoscere il mio presente, ma questo passato è una costruzione nel mio presente di cui io non mi rendo conto come momento del mio presente. Vivo quindi un evento del mio presente come subalterno ad esso. Questo ha a che vedere con l’altro? Sì, perché se effettivamente il nostro accadere non può essere proiettato in un tempo che sia concepito come la conseguenza di un’antecedenza – questo è casomai ciò che ci offre la possibilità di letture storiche, sociologiche, ecc. tutte legittime, ma che non bastano. Noi possiamo dire di essere la somma delle nostre spiegazioni dal punto di vista psicologico, storico, storico-economico, giuridico? C’è qualcosa probabilmente che dice: bene, ma io non sono la somma di queste cose! Queste sono soltanto la mia proiezione su una serie di mappe che, messe assieme, così come le parti del discorso in Platone non fanno l’unità del discorso, non fanno me. Anche perché la cosa più evidente, per ciò che mi riguarda, è che io accado in un tempo diverso da quello in cui sono stese queste mappe. Se andiamo in questa direzione, scopriamo che noi ci originiamo esattamente al nostro bordo e che il nostro bordo ha la caratteristica di essere un confine osmotico, nel senso che non è un confine che separa, ma è un confine che modula dei flussi. Allora da un certo punto di vista, ripensate con un altro taglio, le proposte delle varie imprese scientifiche che ci attraversano mettono in luce progressivamente una cosa che le intelligenze più affettuosamente disponibili nella storia del nostro pensiero sapevano, cioè che noi siamo una mescola di flussi tenuti assieme da un nulla senziente. Noi siamo essenzialmenteun nulla che sente e un nulla che agisce, perché il suo sentire e il suo agire è possibile soltanto nel suo essere nulla di qualcosa che c’è già e che solo nel nulla, nella libertà e nell’apertura del nulla, effettivamente accade. Tutto il resto è un grandissimo flusso di entità, che in parte si combinano nella forma dell’individuo, in parte partecipano di altre individualità, in parte ci abbandonano e vanno a ricomporsi secondo altri disegni. Montaigne e Goethe: questi due grandissimi pensatori e poeti del fatto che noi siamo sempre noi e tantissime altre cose, noi e pezzi di altre storie, ma che è proprio questo non avere “in proprietà” nulla di noi a rendere il nostro nulla la vera garanzia di assoluta singolarità del nostro percorso. Su un altro piano, era ciò che conoscevano alcuni grandi aristocratici poveri (Nietzsche, Rilke) che tenevano così tanto al loro essere aristocratici, perché avevano la capacità di sapere che il loro essere aristocratici era soltanto un blasone e l’assoluto coraggio dei propri sentimenti e dei propri impulsi. Non c’era nessun contadino da sfruttare, dietro. C’era soltanto l’apertura al niente esser già del proprio avvenimento.

Questo tipo di considerazione apre, secondo me, una prospettiva in ordine all’altro. Forse l’altro non si incontra quando si pretende in qualche modo di riconoscere, seppur a prezzo di grandissimi sforzi, la sua vera configurazione. Quando nei suoi confronti prevale, da parte nostra, un intento conoscitivo che non sia superato da qualcosa che intrinsecamente lo sorregge e lo oltrepassa. Forse noi non siamo mai in relazione con l’altro fino a quando pensiamo che si tratti soltanto di sapere com’è veramente. Certo abbiamo bisogno, in qualsiasi rapporto, di sapere il più possibile, ma non è questa la necessità dominante. Non è l’istanza interpretativa ad essere dominante. Non è il portare a casa la preda di una conoscenza perfetta. Perché, come sanno i cacciatori, che si ritengono amanti della natura e che forse anche lo sono, quello che portano a casa è sempre morto. Si possono amare molto le beccacce, ma se si va a caccia le si riporta morte. Dopo di che, i cacciatori sanno tutto delle beccacce. Forse sanno meno di quello che provano le beccacce nel loro rapporto coi cacciatori.
Conseguentemente, il rapporto con l’altro che vuole andare verso il cosiddetto altro, non può essere un rapporto di superamento di ostacoli conoscitivi per andare verso una conoscenza vera. Per questo il tema del corpo ha avuto così importanza nel pensiero del XX secolo come avviene anche in quel percorso paradossalmente riduzionistico / anti-riduzionistico di certe neuroscienze, dove il pensiero diventa progressivamente tutta la rete delle relazioni tra il corpo ed altro. Esse diventano il vero luogo di un pensare, il vero luogo della vicenda psichica.

Nel momento in cui ci muoviamo verso l’altro, abbiamo bisogno di compiere uno di quei movimenti che un tempo erano famigliari alla speculazione mistica. Uno di quei movimenti nei quali, progressivamente, noi avanziamo parlando in prima persona (“io è un altro”… tanto dell’esperienza novecentesca, secondo alcuni filosofi tradizionalisti, non è altro che la generosa confusione di intelligenze che colgono il grande problema del rapporto iniziazione-tradizione, ma lo praticano senza una vera scienza tradizionale), noi andiamo per una strada, continuiamo a dire “io”; poi ad un certo punto sentiamo che la voce che sta parlando non è più la nostra o per lo meno non è solo la nostra; oppure, come avviene per la poesia, noi stiamo parlando per ascoltare e la nostra parola si è fatta ascolto. Siamo noi che parliamo e forse mai parliamo noi come in questo caso. Eppure, la nostra parola sta cogliendo la parola di altri, sta cogliendo l’avvento di altri e conseguentemente, forse, ci stiamo avvicinando a quel luogo in cui noi ci originiamo proprio perché siamo soltanto l’accoglienza di qualcos’altro.

Questa è una cosa che avviene chiaramente, per esempio, nell’esperienza dell’esecuzione musicale. Un’esecuzione musicale perfetta è quella in cui l’esecutore esegue esattamente ciò che è già scritto, ma così come se l’avesse composto lui nel momento in cui l’esegue. Totale dedizione ad altro, totale accadimento di sé. In questo senso il rapporto con l’altro è sempre un rapporto sorprendente e richiede che nei confronti dell’Unheimlich, del perturbante, vi sia una strategia diversa da quella dell’esorcismo tranquillizzante. Ieri veniva ricordata la formula nietzscheana che dice che la conoscenza nasce dalla paura, perché ciò che è nuovo è ciò che ci spaventa e dunque conoscerlo significa riportarlo ad un ché di conosciuto. Quando Fernando Pessoa scrive uno dei suoi splendidi saggi, intitolatoPer un’estetica non aristotelica, prova a proporsi esattamente un contro-movimento: e se il nostro problema fosse quello, paradossalmente, di conoscere non riducendo e riportando al passato, ma facendo esplodere esattamente la non-esorcizzabilità del nuovo? Non è una cosa che troviamo solo lì. E’ il suggerimento fondamentale che dovrebbe portare il giovane poeta Kappus – nelle Lettere a un giovane poeta di Rilke, in questo senso perfetto contemporaneo di Pessoa – verso l’approfondimento massimo della solitudine e, attraverso la solitudine, al rapporto con la melodia delle cose. Egli propone questo esercizio, che in parte anche la psicanalisi esercita a suo modo: quando trovate qualcosa di radicalmente nuovo, la vostra preoccupazione non può essere quella di farlo diventare vecchio, ma casomai di intonarvi alla rigorosa novità di quel nuovo, che è la novità di un tempo in cui qualcosa veramente accade. Questo ha a che fare con la Grazia, perché forse si potrebbe definire la Grazia un tempo in cui noi veramente accadiamo per Grazia, ovverosia per qualcosa che non siamo noi e che non ci sarebbe se noi non la cogliessimo. Qualcosa di cui siamo co-autori. Ma tutto il discorso che stiamo facendo dice una cosa: noi siamo sempre co-autori, siamo sempre noi e altro assieme. La psicanalisi, ad esempio, assume questo aspetto nelle sue parti migliori, non solo nel senso dell’abbandono a ciò che è radicalmente nuovo e perturbante, ma casomai come messa in opera, come messa al lavoro di questa condizione. Il sintomo, la formazione compromissoria: anche il sintomo ha il suo altro all’interno. Il sintomo abita in noi come qualcosa di altro e non a caso siamo soliti, da nevrotici, dargli da mangiare come si farebbe con un animaletto domestico. La psicanalisi, novantanove volte su cento, è un modo di dare da mangiare al sintomo, un contro-movimento rispetto alla propria natura. Ma, di per sé, il sintomo è qualcosa che va elaborato, non tanto interpretato, ma decifrato, messo in moto, perché la psicanalisi, come si sa, non ha come suo ruolo centrale una ricerca classicamente conoscitiva. La psicanalisi è una pratica. La sua stessa portata speculativa sta nell’essere pratica, sta nell’essere un rapporto col pensiero che non può mai sedimentarsi nell’esito di una teoria, perché la sua vera dimensione teorica sta nella temporalità della pratica. Questo, per il tramite psicanalitico, mi porta a dire una cosa: che il confronto con l’altro non sta nello scoprire finalmente l’altro – «adesso finalmente ti ho preso, so chi sei!» – ma nell’incontrare l’altro attraverso una pratica che non pretende di vederlo e di ridurlo al contenuto di una visione. Una pratica che sta in contatto con esso, perché si espone all’evidenza dura del Reale – dove il Reale non è la realtà, ma è esattamente l’altra faccia di questo nostro stare nel nostro accadimento, l’impossibilità di chiuderlo nel contenuto di una visione e la necessità di sperimentarlo sempre come qualcosa che va anche in pezzi. C’è qualcosa, infatti, che non siamo noi, contro la quale andiamo sempre a sbattere e che non possiamo esorcizzare, riportandola al contenuto di una visione, o ridurla, riportandola al contenuto di una teoria. Qualcosa che non possiamo saturare. E’ ciò che fa sì che noi siamo sempre nella pratica del pensiero e non nella costruzione progressiva di un’architettura di pensiero, che possa immaginarsi, alla fine, come costruita e compiuta.

D’altra parte, se ci pensate, è la grande tradizione mistica del Tempio. E’ quella tradizione ebraica che ci aiuta, per molti versi, a mettere a punto una nostra riflessione sul posto della religione dentro a questo discorso e che prevede fondamentalmente che il Tempio di Gerusalemme sia sempre in costruzione; e quando è costruito venga poi distrutto e sia poi nuovamente in costruzione. Questa costruzione continua è il vero motivo per cui si può dire che «se le genti sapessero che cosa significa per loro la distruzione del tempio di Gerusalemme piangerebbero più delle figlie di Israele». E’ proprio perché il Tempio è sempre in costruzione che si può dire questo ed è perché il tempio è sempre in costruzione che la religione del Tempio è così indisponibile ad uscire, anche se forse gli Ebrei lo desidererebbero, dal giro delle nostre considerazioni. Anche sul piano sociologico i problemi del rapporto con l’altro vengono spesso giocati sul piano del dialogo / mancato dialogo interreligioso, ma vi faccio grazia di tutto un complesso di considerazioni che potrebbero essere oggetto di altri momenti di discussione. A pensarci bene però, ne abbiamo parlato ieri, a un certo momento si diceva che tutto sommato la religione, per convenzione delle scienze religiose, è stato un modo per produrre formazioni di senso, esorcizzare il timore della morte, organizzare una visione del mondo ecc. Badate bene: tutto questo fa parte di quella fenomenologia storica della religione, che è l’interpretazione della religione. Le religioni portano con sé un elemento di auto-interpretazione e, più recentemente, le religioni sono per eccellenza un oggetto di interpretazione. Bene, una religione è essenzialmente ciò che in essa emerge quando compare radicalmente al di là di qualsiasi interpretazione, a cominciare da quell’auto-interpretazione che ne è la costruzione dogmatica e la rappresentazione istituzionale. Che cos’è il Cristianesimo? E’ quella cosa che io avverto quando la descrizione socio-storica della Chiesa, la descrizione di tutti i suoi dogmi, di tutta la sua teologia, non mi basta. Sotto questo profilo, si consideri la formula così cara a S. Alberto Magno e che piaceva così tanto a Meister Eckhart, il quale prende lo spunto proprio dal sermone Beati pauperes: che cos’è il povero di spirito? E’ colui a cui non bastano tutte le ricchezze del mondo. Che cos’è essenzialmente la religione, motivo per cui essa può interessare anche chi, come me, non è religioso? La religione è esattamente quella cosa cui tutto il sapere sulla religione, l’essere-nel-mondo della religione, non basta. Qualitativamente, è qualcosa di radicalmente altro ed è la cosa che lega per tanti versi, realmente, ma in una forma diversa dalla devoluzione storicistica della teologia in filosofia, la religione alla filosofia. Quando ieri si parlava di “pratica filosofica”, non si intendeva dire un arrabattarsi esistenziale a ridosso della filosofia. Si voleva dire che, al suo cuore, la filosofia è esattamente ciò che non è riducibile alla riduzione scolastica dei suoi contenuti. Che cos’è l’idealismo? E’ esattamente ciò che opera all’interno di un pensiero quando è evidente che tutto il sunto il più corretto, il più preciso, il più dettagliato dei libri degli idealisti non è l’idealismo. Non perché sia falso o sia fatto male, ma perché è un’altra cosa. Lo stesso vale per la poesia, quando la si riduca al complesso degli accessori conoscitivi utili al rapporto con essa. Ci siamo assuefatti ad un grande mondo di cose, di simboli ridotti a cose, che abbiamo chiamatocultura e che siamo soliti ritenere di dover difendere, esattamente al modo in cui si ritiene di dover difendere le cose che sono già perdute nel momento in cui sono concepite come bisognose di una difesa. E’ stato citato Dostoevskij nel corso di queste conversazioni. Qui ricorderei un mio un po’ puerile aforisma, con cui concentravo una serie di riflessioni di qualche anno fa : “Chi si salva è perduto”. Chi cerca la salvezza nell’aspettativa della salvezza, è già perduto. Solo andando radicalmente al di là della progettazione di una salvezza si è salvi, perché solo ciò che non ha bisogno di essere salvato, è salvo. Questo si proietta sul problema dell’altro? Sì, evidentemente. Qui veramente c’è Meister Eckhart: finché tu pensi di dover diventare vuoto perché Dio possa trovare posto nel tuo vuoto, tu hai già perduto. Devi accettare che sia Lui che faccia vuoto in te, per esservi accolto. Come dire, quell’altro che noi desideriamo, “l’altro dei nostri sogni”, ha bisogno che si smetta di sognarlo e che lo si accolga nella nostra veglia. Ma per accoglierlo nella nostra veglia dobbiamo essere svegli e noi siamo al 99% addormentati, perché non conosciamo il nostro presente, ma solo una sua narrazione sostitutiva.

Non è un caso allora, se queste considerazioni, pur nella loro approssimazione, riescono a rendere conto di una trama di sensazioni vissute nel coso della nostra conversazione, che ieri si sia evocato il timbro della voce poetica di Paul Celan. Chi legge Celan può avvertire che, le parole vengono da sotto la carta, la forano esattamente come delle punte taglienti . Esse sono qualcosa che passa attraverso le radici nascoste della parola e che, in qualche modo, fa emergere la parola con tutta la sua capacità straziante. Sono qualcosa che perfora il supporto e che ci sbatte di fronte, innanzitutto, la composizione quasi visiva (tra Klee e Giacometti,volendo) di una serie di parole martoriate, ma assolutamente indomite e non soltanto luttuose. Esse sembrano chiamare ad un esercizio il cui senso difficilmente potrebbe venire inteso qualora ci si volesse ancora far assistere dalla pur grande luce novecentesca della interrogazione sul “perché i poeti nel tempo della miseria”.

Si tratta di reggere l’ulteriorità del reale alla presa esorcistica delle diagnosi esteticamente e moralisticamente compiute, di stare all’altezza del suo rendersi evidente anche se questo significa alternativa tra il sì e il no e dilatare l’ombra. Non l’indecisione ma una decisione più estrema che rifiuta di convalidare la mutilazione dell’evidente.

Comprensibile allora che non sia manato nemmeno il riferimento ad una voce nella quale si manifesta limpida ed espansiva la forza “complicante” del femminile nell’orizzonte del pensiero come quella che condensa la scrittura di: Maria Zambrano. Penso a La tumba de Antigona, dove sostanzialmente Antigone rifiuta di essere o tra i vivi o tra i morti e soprattutto pretende di essere lasciata libera di pensare una possibile città dei fratelli, non dei figli uccisori dei padri o dei padri uccisori dei figli. Lei pretende di star lì dove non c’è né parola né istituzione che dia corpo a questa intenzione, ma dove la poesia può tenere aperto questo spazio. In un certo senso, Celan fa un’operazione simile: non vuol dire: «sii indeciso o reticente», ma «compi questa operazione che richiede un’altra ragione» (per questo parlavo anche di un superamento dei limiti dei nostri strumenti): quella di poter dire sì e no assieme, senza che questa sia la confusione o il caos, e di dilatare quell’ombra, che non è l’evanescenza o la mancanza di lucidità, ma certo non è la limpida teoresi che noi abbiamo associato tradizionalmente al giusto pensiero. Noi pensiamo tradizionalmente che “pensare bene” sia vedere con lucidità e con la giusta distanza. Tutto il nostro discorso ci dice un’altra cosa. Abbiamo un compito più complesso e più grave: stare a contatto con le cose – l’occhio che tocca – e riuscire ad essere lucidi e rigorosi lì, dove siamo immersi nell’ombra. Dove siamo in quel che Rilke chiamava, nella decima delle Elegie duinesi, “la felicità di qualcosa che cade”. Non la felicità di qualcosa che va gloriosamente verso l’alto, ma la felicità di qualcosa che cade.

Proprio per questo – sarà l’ultima transizione – nel Meridiano Celan dice una cosa che può sconcertare, perché può sembrare troppo facile, e che rischia di essere ridotta a un mero atteggiamento del cuore: «non vedo alcuna differenza tra una stretta di mano e una poesia». La stretta di mano indica invece esattamente la capacità di stare su quel bordo di cui si parlava e di starci facendo della propria parola accoglienza di altro. Non a caso, quando Celan va a trovare Heiddeger, col sincero desiderio di potersi conciliare con costui, scopre parlandogli che il suo pensiero non è in grado di reggere questa condizione. E’ una condizione che chiede pensiero, perché la poesia chiede al pensiero non di essere interpretata, ma di sapersi muovere alla sua altezza. Quando Celan dice “sì e no”, egli dice una cosa che noi riconosciamo sempre di fronte alle grandi poesie o ai grandi quadri o anche a situazioni della vita che ci feriscono con l’intensità che avvertiamo scaturire dal convivere in esse di una ricchissima e contraddittoria moltitudine di eventi molteplici, di cui forse riusciamo a porci in ascolto quando ci accorgiamo di doverli accogliere al modo con cui si accoglie ciò che è proprio della poesia. Siamo di fronte a qualcosa che giustificherebbe più discorsi , forse contraddittori e addirittura inconciliabili. Eppure avvertiamo che ciò che ci si presenza è in quanto irriducibilmente suo il luogo in cui quei discorsi stanno necessariamente assieme, meglio, sono dotati di una loro forza di verità proprio perchè stanno assieme intimamente uniti dal loro essere ciascuno indomabilmente irriducibile ad una qualche mediazione che riporti il tutto alla pace morale del senso. E questo ci chiede, nell’orizzonte del nostro pensiero, di non mentire al suo cospetto, ovvero di non fare del nostro pensare la cancellazione di quell’evidenza. L’arte ci chiede sempre di saper pensare al livello di ciò che essa ci mostra. Non ci chiede di essere spiegata, non ne ha bisogno. Ma proprio per questo è una grande promotrice di pensiero, perché ci indica l’asticella all’altezza della quale dobbiamo portare il nostro sforzo di pensare. La stretta di mano non è la stretta di mano tra gli uguali. Essa è interessante quando può essere la stretta di mano tra le cose più diverse. Il genero di Hugo Von Hofmannsthal, il grande indologo Heinrich Zimmer, propone, nel suo Il re e il cadavere, travalicando qualsiasi limite disciplinare, alcune splendide riletture del ciclo bretone della letteratura cavalleresca francese, insistendo su questo fatto: abbiamo esseri umani, nani, animali, creature fatate. Tra tutte queste cose si parla e si hanno rapporti. Tendenzialmente ci si ammazza tra uomini, ma non tra uomini e non uomini. Ivan circola con un leone (Ercole incontra un leone e lo ammazza, Ivain incontra un leone, ci fa amicizia e se ne vanno in giro assieme). Noi tutti abbiamo sempre desiderato, leggendo le fiabe, di stare in un mondo in cui si potesse parlare con gli animali. Il problema è che, come avrebbe detto Nietzsche, i punti di potenza sono diversissimi e non è vero che si è uguali. La cosa terribile è fare della non-eguaglianza un valore e una scala. Oppure, dichiararsi tutti uguali mentendo – ed è la grande menzogna dittatoriale dei sistemi che in qualche modo enfatizzano il riferimento all’eguaglianza e che, non a caso, spesso cancellano ogni peculiarità individuale. Dall’altra parte sussiste il terribile rischio del fare del riconoscimento della non-eguaglianza una gerarchia, una diversità di valore e non, invece, la capacità di accogliersi diversi, senza dover pervertire l’apertura al diverso con la presupposizione , inevitabilmente stravolgente, di un qualcosa di comune, pacificamente di tutti, che riconduca l’intrinseca novità dell’incontro alla finta quiete dei protocolli cui quotidianamente chiediamo che tutto sia “sotto controllo”.

 

Adone Brandalise, intervento conclusivo del convegno “L’altro non è abbastanza” Camaldoli, 23-25 aprile 2010, pubblicato in Trickster, Rivista del Master in Studi Interculturali, n. 9, settembre 2010, Il malessere dell’identità: tradizioni, radici, origini, culture.