Regioni e ragioni: sulla cultura della Lega

 

 

Significativamente, l’avvio del nostro dibattito ha visto tra le sue prime mosse figurare l’accenno sostanzioso, quanto garbato, ad un sorta di possibile “conflitto delle discipline” pronto a lievitare attorno all’identificazione della miglior competenza in ordine al tema trattato. Perché devono essere degli storici ad occuparsi della propensione al voto per la Lega diffusa tra gli scritti della CGIL del Nordest? In realtà, ogni qualvolta oggi si ha la sensazione di avvicinarsi ad individuare un tema effettivamente capace di mettere in contatto con una qualche linea-forza caratterizzante le grandi trasformazioni in corso, è pressoché inevitabile anche sperimentare l’inadeguatezza del sistema di discipline che per tradizione si spartiscono la conoscenza della società e dello stato.

Nemmeno una ormai classica interdisciplinarietà concepita come accostamento delle diverse rappresentazioni prodotte a partire dal repertorio categoriale che struttura i singoli saperi, sembra riuscire ad evitare che la somma di tanti pure serie e sofisticate contributi si risolva in una specie di danza della pioggia attorno al buco nero di ciò che andrebbe realmente attraversato e capito, ma che i limiti impliciti nell’assetto epistemologico delle discipline impediscono di riconoscere. Si potrebbe dire che in questo modo sfioriamo un problema assai più connesso con quelli di cui qui dobbiamo occuparci di quanto non si pensi. Ed è il problema la qualità dell’organizzazione scientifica e culturale della nostra ricerca accademica nell’ambito delle scienze sociali e umane e del suo modo di stare all’interno del quadro di processi sui quali spesso sembra far piovere da un osservatorio super partes i propri responsi.

Non si tratta, almeno a mio avviso, di iniziare una pur motivata lamentazione circa i limiti della diffusione di quegli onesti luoghi comuni cultuali che potrebbero fare da antidoto alle peggiori derive del senso comune e imputarne l’origine ad una scarsa efficacia dell’azione culturale dell’università. Piuttosto, sarebbe interessante chiedersi- e da qui vorrei partire- se il complesso dei fenomeni sui quali ci stiamo concentrando non abbiano un nesso comunque decisivo con un insieme di scelte di sistema, non riconducibili necessariamente ad una perversa strategia occulta, ma certo propense a saldarsi in un complesso coerente, che hanno nel corso degli ultimo ventennio promosso una sostanziale emarginazione dell’innovazione scientifica e della competenza di livello alto dalle principali tendenze dal nostro sistema produttivo, contestualmente deprimendo il significato della formazione e della cultura diffusa, in quanto elemento determinante nel qualificare la realtà sociale come complessivamente “produttiva”.

Per molti versi si potrebbe dire che questa tendenza, che ha trovato nella celebrazione l’indiscriminata e acritica di un fenomeno ricco di vitalità, ma anche di criticità destinate, prima o poi, a manifestarsi come quello della piccola e media industria una sua estroversione ideologica, disegni anche lo spazio sotto il profilo dei processi reali di quanto dal punto di vista nell’analisi della comunicazioni e dei comportamenti politici potremmo chiamare la crisi e il discreto della cultura della complessità. Se rivolgiamo la nostra attenzione al fenomeno leghista sin dai suoi primi vagiti, in particolare considerando quella che è stata una sua caratteristiche, sinonimo di successo, la capacità di riporre retoriche semplificanti, ma in grado di radicarsi nel vissuto dei loro utenti come una potente legittimazione dell’aggressività e di una, almeno ideologica, volontà di insubordinazione a tradizionali gerarchie socioculturali e politiche, vediamo che il vero oggetto costante del risentimento legista è costituito esattamente da quella che possiamo chiamare “la cultura della complessità”. Gli stessi processi che decretano il successo economico del Nordest sono anche quelli che portano al massimo grado la complessità dell’intreccio che collega economicamente e politicamente l’Italia a dimensioni più vaste che sempre di più ne decidono le dinamiche interne. Qualcosa che logora la tradizionale mediazione ideologica politica e macro e micro amministrativa garantita dalla cosiddetta Prima Repubblica nella sua declinazione nordestina assicurata da una DC più che mai complexio oppositorum sul modello della istituzione ecclesiastica, e che trovava da un punto di vista antropologico culturale uno dei suoi capisaldi nel riuso di una antica propensione veneta alla reverenza, magari sofferta, nei confronti dei “soggetti supposti sapere”,clero, insegnanti, giudici, funzionari, “studiati” in genere.

Il mondo di competenze e pratiche che oltrepassa la sfera dell’esperienza diretta del piccolo imprenditore dell’operaio e del piccolo operatore economico in genere di viene così una nebulosa retorica sospetta di mediare le peggiori prevaricazioni a danno del popolo lavoratore, e i ceti che si situano alla sua ombra, diventano i protagonisti dello spreco e i promotori della voracità fiscale dello stato. Roma e le sue propaggini filtrate nel locale fa massa con la globalizzazione ed i suoi gerghi, ma anche con quanto nella nostra cultura e nella attività dei nostri sistemi formativi testimonierebbe la non autosufficienza dei saperi applicati del Veneto “basso”, onesto ed operoso, che senza il taglieggiamento esercitato da burocrati ed intellettuali potrebbe prosperare in virtù delle sue intrinseche qualità “etniche”.

Il successo di questa proposta non è senza ragione. Ragione di cui si può leggere una declinazione nella vicenda del sindacato italiano.

Credo sia lecito sostenere che all’altezza del 1969, assunto come punto alto della vitalità politico-culturale del sindacalismo confederale. Il complesso dei saperi che s’intrecciavano con la vita del movimento sindacale avevano prodotto una capacità di controllo conoscitivo sulla realtà della fabbrica, ma anche delle sue connessioni non inferiore a quello messo in campo quotidianamente dall’interlocutore padronale. Non a caso, in forme purtroppo incapaci di auto selezionare le proprie dimensioni e componenti migliori, i movimenti sociali che chiesero in quelli anni che il sistema economico e sociale si evolvesse procurando attraverso la valorizzazione del capitale sociale l’innalzamento della qualità del lavoro e della vita, come complessiva transizione ad una fase più ricca culturalmente della vicenda della nostra costituzione in senso materiale. La prestazione tipica della Verfassung della costituzione-processo, quella di trasformare il conflitto in espansione quantitativa ed elevazione qualitativa del complesso Stato-Società, veniva sollecitata con inusitata energia. Non stupisce che alla politica si chiedesse, con un’enfasi spesso risolta in retoriche disponibili a servizi di discutibile qualità, di essere immediatamente il luogo di elaborazione e quindi la vera struttura produttiva culturale di tale trasformazione. Fu, lo si ricorderà, momento in cui i sindacato federale godeva di un cospicuo successo d’immagine, così da essere vissuto da molti come una cornice del lavoro e del dibattito politico-culturale, quasi preferibile a quella caratterizzata da legalità interne troppo strette dei partiti e dei movimenti.

Gli anni settanta furono il tempo della liquidazione di questa prospettiva. Nel 1980 l’esito della vertenza Fiat dimostrò, a ben vedere, che il mondo era già cambiato. Il capitale e il lavoro non si confrontavano più sul terreno comune dell’impresa. Si profilava già la nuova dimensione della finanza così come oggi la conosciamo, bisognosa prima di tutto di non subire legami, di non essere radicata di non vivere responsabilità alcuna rispetto ai luoghi dei suoi mutevoli insediamenti e più in generale di non trovare ostacoli al suo movimento mondiale nella configurazione tradizionale delle realtà sociali e delle culture. Sino, in alcuni casi, a rispecchiarsi nell’aspetto più nichilistico delle guerre e delle migrazioni forzate, come cancellazione vantaggiosa di biodiversità culturali inutilmente ingombranti, e poi come vediamo dai nostri giorni intesa a promuovere una cultura della disponibilità assoluta alle sue esigenze di porzioni di umanità “liberate” dai vincoli dei loro tradizionali radicamenti, tutele giuridiche e protezioni sociali comprese.

Certo, nell’arco temporale che va dalla fine degli anni settanta ad oggi si svolge l’epopea per la quale si è ritenuto di dover inventare la nozione di Nordest, quella in cui una parte cospicua ed importante, ma non la totalità e non le componenti più pregiate, che si aggregavano nel repertorio di risorse socio-culturali prodotte dalla storia moderna dell’area veneta, è stata messa al lavoro con risultati indubbiamente importanti. Sarebbe interessante analizzare con adeguata strumentazione come negli anni ottanta una fase di crescente prosperità produca anche il rifiuto a confrontarsi con il necessario rinnovamento delle ragioni che la rendono possibile. Insomma, il Veneto sceglie di sopportare i costi della crescente complicazione prodotta dal suo stesso sviluppo piuttosto che concepirsi in termini di complessità da ordinare vitalmente mediante una globale ridefinizione dei propri fondamentali, a cominciare dall’elaborazione di una capacità di sguardo su di sé in grado di riconoscere in luogo dell’autosufficienza della piccola patria, il formidabile intreccio di flussi diversi per consistenza e tempistica che concretamente intersecano costituendo il “qui ed ora” del suo “reale”.

Si determina così una schisi crescente tra il prodotto delle agenzie di formazione, scuola e università in primis, che nonostante tutto garantiscono una diffusione culturale ed una produzione di “cervelli” per quantità e qualità più che ragguardevole e sempre più spaesata in “casa propria”, costretta a sostare di fronte all’alternativa tra l’autoriduzione intellettuale spinta sino al trasformismo e alla denegazione dei titoli di studio e l’espatrio, vissuto anche come possibilità di confronto più ravvicinato con quei processi di cui nel proprio contesto d’origine si vivono sempre di più quasi solo gli “effetti di coda”. Ma, prima ancora e soprattutto, si profila la scissione tra la realtà dei processi e quella del loro vissuto da parte della maggioranza di quanti vi sono coinvolti. In una situazione in cui inevitabilmente muta ed “emigra” anche chi si ne sta a “casa propria” – perché è la terra che abbiamo sotto i piedi ad essere,ci piaccia o no, trasformata- si codifica un principio di realtà che statuisce la mappa del presunto concreto: le cose come stanno, le evidenze al di là delle chiacchiere interpretative, l’impasto tra godimento e malumore che si reitera nel giorno per giorno, che procura la narrazione nuova e fortunata della zolla nordestina in grado di reggere ai sismi che la circondano, sostanzialmente immutata grazie alla sua capacità di non farsi distrarre da altro che non sia la propria autorappresentazione univoca, esaltata dallo scontro con ciò che di volta in volta veste i panni della minaccia, dell’intrusione contaminante, della zeppa che impedisce il funzionamento di ciò che sempre è andato bene e che bene continuerebbe ad andare senza il disturbo procurato dagli intrusi.

Cosa è accaduto, essenzialmente ? Qual è in altri termini lo scarto che, se non totalmente almeno in misura cospicua, trascina con se un effetto destinato ad espandersi e a complicarsi in forma sistemica? Con la sinteticità inevitabilmente brutale imposta da ragioni di spazio si può azzardare lo schema di una risposta.

Gli anni ottanta, al netto delle retoriche e di gesti incompiuti altrimenti indirizzati, impostano una tendenza destinata a propagarsi su più piani. L’innovazione tecnologica. la formazione di livello alto, l’intelligenza capace di innovazione complessiva, specialistica e applicata ma anche culturale, capace cioè di indurre innovazione nei sistemi di comportamento, nell’immaginazione delle relazioni sociali e dei rapporti gerarchici, vengono vissute come sostanzialmente incompatibili con le esigenze di autoconservazione della vasta agglomerazione di potentati oligarchici intrecciata sia con il privato, delle imprese e, soprattutto delle professioni e di rafforzamento politico di reti di privilegio e di controllo sociale capaci di formidabili sforzi cooptazione, che provvederanno ad offrire sbocchi opportunistici sul piano dei percorsi individuali e corporativi su quello dei comportamenti collettivi, come replica normalizzante politicamente e, alla lunga, destabilizzante socialmente e culturalmente, alla forte richiesta di valorizzazione avanzata, con limiti e dispersioni spesso giustamente evidenziate, ma anche con potenzialità poderose, dal corpo sociale.

Ed è la cornice nella quale si risegna il rapporto tra politica e sindacato. Progressivamente si dissolve l’immagine della politica come proposta complessiva che pretenda di situarsi all’altezza di una compressione globale dei processi reali in corso e quindi di narrare la vicenda di una partecipazione possibile di singoli e di aggregazioni alla determinazione del presente per cedere il passo alla politica come complesso di mediazioni che curano l’inserimento di singoli blocchi di interessi supposti, di istanze identitarie, di percorsi monadici di fatto seriali nello spazio del mercato e il complesso delle tendenze economiche e sociali dominanti, per lo più attraverso un rapporto cinico tra l’allestimento di strategie comunicative slegate da effettivi contenuti politici e retroterra progettuali orientati per lo più al posizionamento di gruppi di potere.

Il sindacato confederale vede ridimensionata la sua capacità di proporsi come soggetto capace di elaborare, seppure a partire dal suo specifico, linee di intervento che impattino sulle scelte di sistema, venendo ricondotto ad una dimensione tecnica, che lo porterebbe, come esito estremo, a configurarsi come uno tra i molti, anche se tra i più importanti, sportelli che attendono il cittadino nella selva burocratica delle nostre amministrazioni. Proiettato sulla realtà veneta, questo scenario sembra dare qualche plausibilità al fatto che porzioni cospicue di iscritti alla CGIL valutino contemporaneamente la presenza del sindacato come indispensabile tutela di un complesso di condizioni normative e di prestazioni del welfare, e contemporaneamente riconoscano come forma unica per loro accettabile di politica la proposta leghista rivolta non allo scenario oramai irraggiungibile e incomprensibile della grande politica, ma tutto concentrato sulla difesa di una realtà locale identificata attraverso un insieme sostanzialmente povero di indicatori, in grado peraltro di fare da lessico essenziale ad una narrazione di sé in grado di veicolare l’aggressività e i risentimenti prodotti da inquietudini di cui è difficile inseguire compiutamente le ragioni sino ad origini remote.

Insomma, la Lega può sembrare la cosa più vicina ad una politica intesa come espressione diretta di un sentire, a fronte della politica vista come manipolazione dall’alto, da parte di interessi che non si propongono come interlocutori neanche nell’antica forma padronale, immagine nella quale sono coinvolti tutti gli attori in commedia della complessità politica, economica, istituzionale, sindacato compreso quando cede alla tentazione di collegare la tutela strictu sensu con la sorte del paese nel quale essi vivono.

Sarà indubbiamente interessante, soprattutto se le circostanze consentiranno agli osservatori di mantenere la necessaria lucidità, verificare come una Lega sempre più forzata dallo stesso consenso ricevuto a spostarsi dalla posizione di chi rivendica a quella di chi risponde come titolare di una azione di governo si porrà il problema del suo rapporto con lo spazio dei saperi, delle competenze, delle tecniche necessari a garantire alla mitologica autosufficienza del mondo padano quel complemento radicalmente estraneo all’immaginazione leghista sino ad oggi assicurato in maniera non felicissima dalla consumata e consunta tradizione politica del centro-sinistra e dalla disinvolta e al fondo più dissipatrice che innovativa aggregazione di cordate e di reti affaristiche che sono state in gran parte il vero corpo attivo del centro-destra.

Probabilmente, ad una qualche altezza di questa vicenda si collocherà anche la salita in primo piano di quella parte di società veneta di cui i nostri giovani, soprattutto per la porzione più culturalmente formata, costituiscono il profilo più esplicito, con il loro rapporto con il lavoro e il reddito sul quale il sindacato confederale non sembra in grado di esercitare una mediazione in qualche modo paragonabile svolta in passato con le categorie corrispondenti ad una classica merceologia del lavoro e che poco possono attendersi dalla proposta leghista che letteralmente sembra non vederli, almeno come diplomati e laureati, come portatori di desideri e di potenzialità innovative che poco hanno a che fare con l’autorappresentazione del Veneto leghista, così come non vede paesaggi, monumenti, connotati culturali di un territorio che andrebbe, anche come risorse, letto come qualcosa di diverso da un contenitore di uomini che pagano tasse e che desiderano controllare a breve distanza l’uso del relativo gettito.

Sono giovani che in misura crescente indicano l’evasione dallo spazio in cui si sono formati come l’unico sviluppo coerente con il meglio di ciò che hanno imparato a sapere e saper fare, gli operatori possibili-impossibili di un Veneto e di un’Italia in cui la cultura della complessità cessasse di essere, in nome di un complesso di trappole, per divenire il luogo di una globale riqualificazione di ciò che abbiamo chiamato sino ad oggi il lavoro.