Sotto questo aspetto si potrebbe dire che il canone dell’intercultura – più ancora che essere formato di una serie di libri che parlano di pezzi dell’oggetto che sarebbe l’oggetto dell’intercultura – è formato da tutta una serie di versanti, costole, dimensioni interne, correnti di libri (a volte queste coincidono con un libro intero) in cui lampeggi l’evidenza del fare dell’intercultura, in cui cioè si produca una alleanza fondata tra stili di pensiero, di parola che si ritrovino al di là di qualsiasi pattuizione, uniti nel sorreggere un’esperienza di pensiero coinvolta concretamente in uno sforzo di comprensione della natura stessa del suo agire.
E’ comprensibile che l’intercultura si interroghi su quello che si potrebbe definire il “proprio canone” perché quello che noi siamo soliti chiamare canone, ha per così dire, una sua funzione che è quella di ovviare alla esigenza di produrre una compiuta definizione di sé da parte di un ambito di specifica attività intellettuale o spirituale. Ad esempio nella letteratura, tradizionalmente, il canone aveva la funzione di produrre l’evidenza di cosa fosse letteratura attraverso i testi che erano, appunto, canonici. Di fatto il canone ha una sorta di funzione istituzionalizzante, ovvero identifica. Tale identificazione avviene attraverso una pluralità di eventi che la riunificazione canonica, pensiamo al caso della Bibbia, tende a compattare e a rendere in qualche modo fonte di una legalità esclusiva. Nello stesso tempo però la forte caratterizzazione – Schlegel parlava dei libri che componevano il libro per eccellenza la Bibbia come singole personalità – ovvero la pluralità fortemente caratterizzata dagli elementi del canone, indica anche un’apertura sia temporale che spaziale che funziona un po’ come una sorta di rottura della compattezza dell’identità. Apertura-rottura che si verifica sempre in tutti i percorsi di individuazione quando non prevalga l’orrido aspetto doloroso e paranoico dell’identità bloccata.
Va detto che, probabilmente, lo spazio che fa sorgere la dimensione più specifica dell’intercultura o forse più propria, più caratterizzante, è anche uno spazio che mette in un certo senso a dura prova la nozione stessa di cultura e, per un verso, rende difficile pensare in una forma molto codificata un canone, ma nello stesso tempo non fa che produrre continui canoni ovverosia continue costellazioni di esperienze e quindi anche di testi il balenare della cui consanguineità di volta in volta si fa carico di renderci evidente che cosa significhi l’ intercultura.
Indubbiamente l’intercultura può essere vista come la somma di una serie di torsioni che alle scienze umane, alla filosofia, alle tradizionali scienze morali, ha dato l’emergenza di problemi in qualche modo legati con grandi trasformazioni sociali, con macrocontesti della mondializzazione e della globalizzazione. Però è anche vero che unificare tutto questo vasto sistema di riferimenti sotto il segno di intercultura è possibile in una forma non generica, non evanescente, solo se siamo in grado di riconoscere che l’intercultura – più che identificarsi come uno specifico sistema di oggetti e con una già costituita gamma di codificate soggettività disciplinari – in realtà si dà come una torsione particolare che altera gli assetti delle discipline che si lasciano da essa contaminare. Effettivamente ciò che rende attraente l’intercultura è la sua intrinseca necessità ad istituire una diversa posizione del pensiero rispetto all’orizzonte della vita. L’ intercultura trae infatti i suoi motivi e le sue suggestioni principali dal fatto che in essa e attraverso di essa si muove il tentativo di ricollocare le forme del conoscere rispetto alla loro posizione tradizionale all’interno dei sistemi dei saperi così come ad esempio sono fissati nelle tradizioni universitarie ed in un certo senso anche nel vasto mondo delle dimensioni applicative.
Insomma che cosa caratterizza al fondo l’intercultura? Al fondo l’intercultura è caratterizzata dall’assunzione dell’attività del soggetto, di colui che agisce e opera nel suo campo, come l’attività di un soggetto intrinsecamente plurimo e, in una forma non necessariamente caotica, cangiante. Poiché il lavoro dell’intercultura consiste essenzialmente nell’assumere non tanto le culture come delle ipostasi che possano, in quanto tali, essere messe a contatto o a confronto tra loro in uno scenario metafisico, quanto nel riconoscere che le culture, e tutto ciò che tradizionalmente riteniamo di mettere nella fisionomia di ciò che chiamiamo cultura, vivono concretamente nella vita dei singoli. Ed è proprio al riconoscimento della vita dei singoli, esattamente come ciò che non può essere sacrificato da un riferimento che annetta la singolarità al retroterra culturale, è a questo riconoscimento che viene affidata, nello sguardo interculturale, l’importanza delle culture. Ciò che è proprio dell’intercultura sta, in altri termini, nel riconoscere che le culture vivono tutte nella loro radicale messa in gioco nel presente in cui sono concretamente parte dell’esistenza di esseri umani. Esse sono risorse in varia misura mobilitate dallo sforzo intellettuale e spirituale di costoro che, nelle situazioni in cui si incontrano, cercano di produrre apertura ed espansione delle possibilità di vita piuttosto che chiusura e soggezione a sviluppi, tendenze bloccate e stereotipiche.
Sotto questo aspetto si potrebbe dire che il canone dell’intercultura – più ancora che essere formato di una serie di libri che parlano di pezzi dell’oggetto che sarebbe l’oggetto dell’intercultura – è formato da tutta una serie di versanti, costole, dimensioni interne, correnti di libri (a volte queste coincidono con un libro intero) in cui lampeggi l’evidenza del fare dell’intercultura, in cui cioè si produca una alleanza fondata tra stili di pensiero, di parola che si ritrovino al di là di qualsiasi pattuizione, uniti nel sorreggere un’esperienza di pensiero coinvolta concretamente in uno sforzo di comprensione della natura stessa del suo agire. Perché, sostanzialmente, l’altro elemento, l’altro aspetto che mi sembra dettare forte suggestione nella pratica interculturale è che essa assume come una sua esigenza quella che si potrebbe definire un’istanza fortemente ricercata, messa in evidenza nella vicenda di molto pensiero novecentesco ma anche più antico, ovvero l’istanza che il pensiero non trovi il proprio limite nel non saper rispondere – con il complesso della propria attività e dunque anche con l’insieme della propria forma – alla necessità di sapere che cosa fa, come agisce nel momento stesso in cui esso pensa. Che cosa si fa pensando? Molto del pensiero, e della poesia del Novecento che in un certo senso lo strattona, consiste nel dire che il pensiero non è e non fa il puro deposito di un pensato, che il pensiero ha un suo intrinseco tempo e in esso si produce, ma che proprio per essere questo tempo, questo tempo ha bisogno di non essere indifferente ai tempi che esso incrocia. Allora forse si potrebbe anche dire che l’intercultura c’è quando il nostro conoscere, il nostro capire e in nostro progettare assuma la necessità di rispondere, attraverso la propria forma, al proprio impatto con il reale, ovverosia con qualcosa che cade necessariamente fuori da tutti gli scenari della realtà concepita come formazione immaginaria. In sostanza chi operi nell’ambito interculturale, delle cose che producono intercultura sa che le sue mappe, per quanto raffinate e oneste, sono sempre una cosa diversa dal territorio e non per questo le butta via, ma sa assumere lo choc di ciò che è nuovo in una direzione che non sia la sua omologazione al già conosciuto. Che questo possa essere una pratica di pensiero rigorosa è un po’ la scommessa dell’aspetto meno caduco, meno empirico, meno debole di un’esperienza interculturale; un rigore che può essere assicurato a volte soltanto dalla lucidità del sentimento, non necessariamente da uno slancio filosofico, ma che richiede effettivamente che ciò che si presenta oggi in certo senso nascente e nuovo non sia sacrificato alla necessità di incasellarlo in qualcosa che ci sedi e lo sedi nella rappresentazione di un già saputo, di un già sistemato.
Allora probabilmente è qui che nasce il problema, in certo senso im-possibile, di un canone interculturale perché se il canone deve essere tutto ciò che si deve sapere per fare intercultura la bibliografia è incredibilmente vasta e dovrebbe essere assistita da meticolosi criteri per l’uso perché in qualsiasi momento le singole discipline potrebbero fare a pezzi l’intento interculturale. E nello stesso tempo è anche vero che il canone potrebbe facilmente ridursi a pochissimi testi se a questi chiedessimo soltanto di effigiare quanto più nel nostro riconoscere l’esperienza dell’intercultura come non settoriale ma pervasiva dovesse affidarsi a qualcosa di simile ad un respiro, qualcosa in cui dovessero essere riassunte, come spesso sa fare il gesto poetico, la vicissitudini intellettuali e l’intensità desiderante delle motivazioni, il calore del vissuto vivente che è sempre presente anche nelle esperienze di pensiero. Conseguentemente forse l’utilità di un discorso sul canone si può riconoscere in una serie di giuste posture che è possibile darsi attraverso un esercizio di composizione di un canone.
Innanzitutto per prima cosa forse per essere nello specifico della modalità dell’intercultura dobbiamo chiederci non tanto quali sono gli oggetti ma qual è la fisionomia dei soggetti che si occupano di intercultura e quindi in qualche modo pensare come testi canonici a testi in cui si producono le condizioni dello sguardo interculturale più che a testi dove si è sedimentata una ipotetica dottrina dell’intercultura.
A partire da ciò, e questa è la seconda considerazione da farsi, probabilmente bisognerebbe pensare a testi che ci addestrino a trovare all’altezza dei nodi, degli snodi in cui gli apparati razionali dissimulano loro limiti rispetto al reale attraverso una pura autoreferenzialità formalistica, ci addestrino a trovare quell’elemento a mio giudizio di rigore o di serietà consistente nell’affrontare quello che potrebbe anche diventare il panico di un’identità intellettuale incerta del nostro lavoro. Per sintetizzare, perché possa darsi un rapporto felice delle varie discipline con l’intercultura, che non è una disciplina, è necessario che esse siano portate a sospendere una modalità che esse vivono con una sorta di grande pathos, di grande godimento, cioè quella di dichiarare non solo la legittimità ma la necessita di un proprio non sapere, nel senso che le discipline si determinano metodologicamente ed epistemologicamente con dei paletti e grazie a ciò vedono risaltare il proprio attraverso la rinuncia ad altro.
Ora, molti dei problemi che effettivamente emergono nello spazio di ciò che chiamiamo intercultura sono problemi che stanno all’interno di una sorta di grande buco nero prodotto da ciò che la somma dei saperi accademicamente formati, scarta e lascia fuori dal proprio ambito; una sorta di grande spazio che è quello di cui l’intercultura deve invece effettivamente assumersi la responsabilità e che non è fatto semplicemente di cose scartate o di cui nessuno ha voluto occuparsi, ma che è fatto di atteggiamenti mentali necessari a riconoscere una serie di situazioni che nessuno ha voluto assumere, atteggiamenti mentali come quello, ad esempio, di chi, di fronte a qualcosa che va capito per poter avere con esso un rapporto, sente che non può restare nello spazio di questa o di quella disciplina ma deve rischiare con il suo pensiero di muoversi al di là di queste certezze e casomai riorchestrare in una situazione più rischiosa le modalità di tanti saperi che possono avere a che fare con ciò che si deve fare ma che non possono esserne la regola.
È qui che io tendo a ritrovare l’importanza di un centro poetico nell’intercultura rispetto anche alle varie sedi dei saperi positivi che pur sono necessari. Va detto che qui, per centro poetico non si intende una sorta di integrazione estetica, o una sorta di vacanza della ragione, o una festa domenicale del sentimento: esso è altra cosa. E’ invece, riprendendo ciò che tutto sommato ha caratterizzato nei momenti più alti il rapporto tra poesia e filosofia come una necessità reciproca ad esempio nel pensiero novecentesco, la capacità di riconoscere che forse è esattamente da un coinvolgimento radicale come è quello che la poesia sa compiere nella ricerca della nostra vera posizione nel linguaggio stesso in cui abitiamo che si produce come forza attiva del nostro lavoro l’evidenza di ciò che è degno di essere pensato, l’evidenza di quel nostro fare, del nostro agire attraverso tutti i nostri apparati di saperi che la tecnica e la grammatica dei singoli saperi non ci saprà mai dare.
Questo rischio di dire la nostra posizione sul reale non è un cedimento del rigore logico, è piuttosto un modo per salvarlo da un suo ripiegamento tautologico, da una sua pura autoreferenzialità in un modo che è quello che da sempre dà grande dignità speculativa, senza ridurla per questo mai a nulla di intellettualistico, alla grande poesia e che agisce tutto sommato anche in quella piccola poesia che ci fa trovare in tante situazioni della nostra esistenza quel dosaggio tra intuizione e criteri meditati di azione in grado di produrre una mediazione di successo in una situazione complicata piuttosto che un fallimento. Intercultura è sempre in qualche modo un po’ una grande fisarmonica che ha da un lato costruzioni intellettuali complessissime e dall’altro lato le nostre mani inserite nella pasta delle situazioni quotidiane.
Allora, a questo punto, una terza postura consiste nel leggere i libri che diventano parte del canone perché li leggiamo così, come qualcosa che ci porta lungo tutta questa grande fisarmonica aperta, dalla filosofia all’empiria e viceversa consapevoli che in quest’ottica tutto è pratica a cominciare dalla filosofia che, se appunto non sparisce in una somma di esiti dottrinali, di cose puramente pensate, è nella sua essenza una pratica. Ciò significa anche considerare la possibilità di poter considerare parte del canone dell’intercultura a volte dei libri che apparentemente con l’intercultura non hanno a che fare nel senso corrente e fenomenologico: per me probabilmente Spinoza, Holderlin, Montaigne, detti volontariamente alla rinfusa, sono stati molto più decisivi di letture sociologiche o antropologiche nel farmi ritenere importanti e decisivamente importanti molte letture antropologiche e sociologiche. E ciò perché si avvicinavano molto a dirmi perché facevo quelle altre letture e come tentavo di rimescolarle nella vita della mia mente con altre cose.
Sotto questo profilo allora il pensiero poetante e la poesia pensante, per usare delle formule di cui è bene non essere soddisfatti, ci portano in vario modo in direzione dell’intercultura. Se io penso ad esempio a Paul Celan – che mi ostino a ritenere un poeta capace di costringere la filosofia, nel momento in cui questa voglia accorgersi di lui, a forzare verso esasperate innovazioni la propria modalità di sviluppo della propria pratica – mi viene alla mente una sua definizione che può suonare genericamente umanistica ma che, per la verità, non ha nulla che possa essere ricondotto a quanto ci può essere di stereotipico e di scontato in questa determinazione, là dove dice che “non c’è nessuna differenza tra un poema e una stretta di mano”; ed è evidente che non parla di una intonazione vagamente cordiale o pedagogica o ispirata a chissà quale fraternità di comodo, parla piuttosto della natura stessa del rapporto che si istituisce nella poesia con il linguaggio e con il mondo implicato nel linguaggio, parla della capacità di ascolto che è propria di una poesia come la sua, di ascolto parlante, perché questo è la poesia dopotutto, soprattutto in alcune delle sue grandi svolte novecentesche, appunto una poesia che più che dire, dicendo ascolta, poesia che sa rendersi capace di ascolto; e questo effettivamente forse realizza un’apertura che consente poi di intervenire su una ricchissima e complicatissima gamma di linguaggi nella modalità di un ascolto di ciò che in essi, al di là di ciò che essi dicono, vorrebbe essere ascoltato. Se veniamo immediatamente al pratico, nell’ambito interculturale, ci troviamo costantemente di fronte ad un problema: che tutti parliamo e vorremmo essere capiti ed essere capiti forse è qualcosa di diverso dal capire alla lettera ciò che diciamo. Tutti in qualche modo raccontiamo, parliamo scriviamo anche senza saperlo nella speranza che il nostro interlocutore abbia una capacità di sguardo capace di integrare ciò che noi gli diciamo con ciò che noi non diciamo perché non siamo in grado di dirlo, perché non sappiamo in quanto lo stiamo divenendo adesso, insomma qualcosa che faccia sì che qualcuno accolga quella cosa che noi non conosciamo cioè la nostra realtà.
Ecco questo in un certo senso si lega ad un’altra questione che è sperimentata più in certi aspetti dell’ intercultura piuttosto che in certi altri e che però è importantissima sempre: noi tutto sommato siamo sempre molto di più e di diverso da ciò che siamo dove quando noi diciamo siamo ci blocchiamo in un certo momento, in un istante ipoteticamente fermo; questo è qualcosa che noi verifichiamo anche nei tentativi di comparazione tra culture quando siano già collocate nell’ottica dell’intercultura: ad esempio scopriamo che nei moltissimi testi, nelle moltissime posizioni di pensiero spirituali o altro c’è molto di più di ciò che tradizionalmente si è riconosciuto quando se ne è in qualche modo parafrasato il detto, quando lo si è voluto spiegare, codificare; scopriamo che le culture così come le abbiamo conosciute anche modernamente si sono in qualche modo garantite un’identità abbastanza univoca solo mettendo sottotraccia moltissime componenti loro, singolarmente affini o consonanti con quelle di altre culture. D’altra parte la stessa reinterpretazione periodica dei cosiddetti grandi testi di una cultura scopre sempre del nuovo e questo perché probabilmente tutte le voci effettive delle cosiddette culture sono voci che continuano a vivere nel presente e, in coerenza con ciò che sono sempre state, sono anche per tanti versi nuove quanto più uno sguardo desideroso di accorgersene le intercetta, sono sempre luoghi in cui c’è moltissimo di ciò che apparentemente sembrerebbe caratterizzare qualcosa di lontano e di estraneo.
Quindi un altro elemento di ciò che risponde alla domanda sul canone interculturale è paradossalmente il canone formato da quanto nei nostri canoni, nei singoli canoni delle culture, è tenuto sotto traccia da un’esigenza di autorappresentazione che forse adesso per alcuni versi viene meno o nel modo di una apertura a una ricchezza maggiore di significati o paradossalmente purtroppo nel senso di una ricerca di ancor maggiore ristrettezza di significati; di fatto, tutta la tematica dello scontro delle culture e il riferimento alle tradizioni, alle religioni, all’identità come giustificazione di scontro riduce moltissimo le identità culturali tradizionali ecc., rispetto alle loro stesse definizioni tradizionali; c’è il rischio insomma che ci sia una dolorosa separazione tra ciò che è dominato da un’idea di unità come riduzione, come pattuizione di un poco su cui si è d’accord, e tutto il resto che viene ad essere sacrificato. Invece, quando si riesce ad invertire questo clima si scopre, ad esempio, quanto di occidentale c’è in ciò che è molto orientale e viceversa e non perché in realtà si debba pensare che alla fine tutto è la stessa cosa, ma proprio perché alla fine nulla è sempre la stessa cosa, poiché c’è una grande unità tra le cose che sono irriducibilmente diverse ma in un certo senso comunicanti.
Quindi, in questo senso, scontrarsi con un problema di canone significa fare un esercizio decisivo proprio per il riprodursi di un’ottica interculturale e forse anche per far maturare un oltrepassamento delle condizione attuali in cui si muove la stessa intercultura sempre minacciata di essere ridotta ad un disciplina tra le altre. Forse stiamo andando in una direzione in cui il desiderio che promuove l’intercultura ci aiuta a ripensare alla questione del canone in senso espansivo, nel senso di canoni espansivi, canoni che producono altri canoni piuttosto che qualcosa che ricorda una serrata veneziana del Gran Consiglio.
Resta alla fine la necessità pratica giorno dopo giorno di dare “consigli” a chi ci chiede cosa leggere e qui, alla domanda sul “cosa leggere”, bisognerebbe aggiungere l’indicazione sul “come leggere”. A tal proposito, a partire dalle considerazioni finora svolte, decisiva potrebbe essere l’indicazione di libri che sono costruiti attorno alla loro capacità di insegnare come leggere, non attraverso la descrizione di una tecnica ma piuttosto attraverso la forza di un loro esempio, di una loro capacità di un contagio.
Da una intervista ad Adone Brandalise pubblicata in Trickster – Rivista del Master di studi intercuturali, N 5, Anno 5, Per un canone interculturale?, trascrizione e ricomposizione di Enio Sartori.