Italiani e anche altro

La questione posta da questo convegno si proietta su un complesso particolarmente esteso e articolato di problemi e può venire ad indicare al contempo il tipo di sviluppo di una riflessione che parta dall’oggetto qui messo a fuoco, dichiarando anche il complesso di motivazioni di ordine culturale e scientifico che in qualche modo giustifica per il Trickster e per il master un confronto con quanto promana da esso.
La definizione di seconda generazione, come più volte giustamente ribadito, è una sorta di compromesso. Si tratta cioè di una definizione sulla quale ci si incontra a partire da molti punti di vista diversi, in maniera anche molto equivoca ma costituisce più o meno, come si direbbe in filosofia, uno di quei presupposti che un buono sviluppo deve riuscire a superare. Ovvero una definizione accettata per poterne cambiare dall’interno il significato e magari, come spesso accade, per romperne anche l’esterno non appena il lavoro che si vuol fare giunga a un buon punto di maturità.

Penso che con sensibilità diverse tutti siamo d’accordo sul fatto che sarebbe utile e importante tra un po’ di tempo avere consumato questa nozione, magari proprio perché si sono consumate tutta una serie di situazioni che attualmente aggrediamo attorno alla definizione di “seconda generazione”. Si tratta infatti di una di quelle definizioni che ha la sua genesi nella tendenza a produrre molto spesso per gli immigrati in genere e per le cosiddette “seconde generazioni” quell’effetto che Lévi-Strauss a suo tempo definiva con la formula: “I bambini, a volte, diventano soltanto un pretesto per un linguaggio tra adulti”; effetto per cui immigrati e “seconde generazioni” sono qualcosa, in definitiva, di cui si parla e che fa si che i diretti interessati restino costantemente nella condizione di “parlati” e, a volte, come spesso accade nella fenomenologia della vicenda della migrazione, “parlati” anche quando parlano perché quando essi parlano di se stessi utilizzando le parole e i discorsi di coloro che li hanno definiti, finiscono per essere loro stessi la conferma del fatto che non possono essere altro che “parlati”, essi stessi coloro che attivano le definizioni che altri hanno loro dato. Di qui mi sembra anche la necessità di far saltare l’involucro, di far saltare un’immagine proiettata, far saltare un po’ tutti i pregiudizi compreso quelli positivi difendendosi sia dalla discriminazione sia da una simpatia che sia simpatia per qualcosa di immaginato e non di concretamente emergente.

Detto questo però va assolutamente sottolineato che un esito positivo anche di un processo politico che porti alla effettiva acquisizione di reali e pieni diritti di cittadinanza per le “seconde generazioni” dipende da processi culturali complessi. Intendo dire che nel contesto attuale, quanto di positivo può intervenire rispetto a coloro che stanno all’interno della definizione di “seconde generazioni” dipende da movimenti che procedono autonomamente rispetto a questo problema. Diventa allora assolutamente necessario, quando si lavora su ciò che chiamano seconda generazione, arrivare a mettere in evidenza una serie di aspetti di quei processi vasti che determinano le condizioni per cui le “seconde generazioni” si trovano adesso in questa situazione e potrebbero, con determinati sviluppi, consentire di uscire da ciò che in questa situazione avvertiamo come un limite. Il che significa anche compiere un’operazione che gli studi interculturali compiono spesso quando, nel considerare le molte alterità che in questo spazio incontriamo, ci invitano contemporaneamente a volte a marcare molto le differenze ma a volte a scoprire che ci sono delle assolute somiglianze.

Conseguentemente tutta una serie di questioni poste dalle “seconde generazioni” si iscrivono più in generale entro tipici problemi che potremmo considerare tra italiani, grosso modo una delle tante dimensioni che passano attraverso di loro come attraverso di noi.

Gli aspetti fobici nei confronti degli stranieri hanno come loro caratteristica principale un loro ulteriore tipo di sfruttamento da parte nostra che ci permette, assumendo nei loro confronti una relazione contrastiva, di mettere a tacere il problema sulla nostra identità. Perché mentre di fronte alla domanda: “Italiani chi? Noi chi” è difficilissimo rispondere, quando c’è un islamico presente la risposta è: “Non lui”. E noi siamo non-lui. Una risposta che fotografa lo sfarinamento di risorse culturali presenti nel nostro paese che ci riguarda, al di là del riferimento alle “seconde generazioni”, e che riguarda anch’esse essenzialmente perché sono salite su questo carrozzone che siamo noi.

A questo proposito vorrei qui offrire degli spunti, dei possibili titoli che in parte sono riflessioni in corso e in parte chiedono un grosso sforzo teorico, nel senso di pratica del pensiero, da parte di tutti noi.

Innanzitutto una delle nozioni che viene suscitata appena si parla di seconda generazione è quella di “identità plurime”. Si suppone, nella fantasia corrente, che la seconda generazione sia segnata dal fatto che, coloro che vi si trovano, si trovano positivamente marcati quantomeno da due identità per cui avrebbero il problema di gestirsi una doppia appartenenza e anche ovviamente il problema di una doppia fedeltà impossibile. Nelle vecchie tradizioni delle destre l’opposizione all’idea dell’acquisizione della cittadinanza da parte di stranieri era questa: non si può essere fedeli contemporaneamente a due identità. Ciò componeva l’idea di identità come appartenenza a una comunità concepita come comunità armata in imminente guerra e/o contemporaneamente sempre in guerra con se stessa per l’auto imposizione di un’identità. Perché le identità presunte forti hanno questa caratteristica: sono sorrette da una perenne mobilitazione generale bellica per convincere ciò che sta nello spazio di ciò che viene identificato a restare identificato tradendo la sua pluralità e la sua appartenenza a moltissime altre cose oltre a quella che è la nostra identità.

Allora l’identità plurima, da un certo punto di vista, rappresenta un elemento di complicazione e di disordine rispetto ad un ordine ritenuto ottimale. Ciò significa anche sostenere che, se vi sono religioni diverse, provenienze diverse, fisionomie nazionali diverse questo è un problema ed è un problema di cui si tende ad auspicare una riduzione – anche perché il nostro repertorio progettuale, quello di cui disponiamo, ci dice questo – una riduzione nel senso della potatura, cosa su cui stanno insistendo molto retoriche politiche correnti. Esse sembrano dirci ossessivamente che non possiamo sopportare più di tante complicazioni, dobbiamo ridurle, a volte nella forma esplicita di un grande sogno chirurgico. Il grande fantasma, che è puramente retorico, delle espulsioni, quelle di cui parlano i politici sapendo che oltretutto non lo sapranno mai mettere in pratica, di fatto costringe a vivere una vita priva di diritti a coloro che restano secondo la logica per cui coloro che sono qui sono coloro che dovrebbero essere cacciati e visto che dovrebbero essere cacciati di diritti non dovrebbero averne. Questo tipo di considerazione ci apre in direzione di una questione decisiva che potremmo riassumere in questo modo: il complesso delle nostre risorse culturali, quelle impiegate nell’organizzazione anche concreta socio-giuridico-politica della nostra realtà quanta complessità sa tradurre in un percorso di autoespansione e di autovalorizzazione, quanto sa trasformare di tale complessità in un capitale sociale attivo?

Questo è un problema dell’Italia oggi e non è un problema che nasce con gli immigrati di seconda generazione; certo è un problema che le seconde generazioni evidenziano, ma che si spiega soltanto nel momento in cui si riconosca come esso riguardi tutti noi. Perché le seconde generazioni pongono un problema di presenza giovanile nel nostro Paese a cui il nostro sistema, e questo riguarda anche molti giovani italiani, ritiene di non aver adeguate linee di valorizzazione. E’ infatti evidente che tra il problema degli italiani di seconda generazione e la cosiddetta fuga dei cervelli, a volte le due cose coincidono, esiste una stretta correlazione: uno che sappia lavorare bene con la testa e abbia venticinque, ventisei anni in Italia rischia sempre più di dover portare la sua testa da un’altra parte marocchino o italiano che sia. Il che significa che indubbiamente un sistema che non riesce a riconoscere come risorsa una parte della popolazione che c’è qui indubbiamente darà spazio ad una serie di rappresentazioni della propria identità che abbiano una capacità esclusiva nei confronti di parte di questa realtà verso cui attua un atteggiamento di tipo protettivo mentre, nei confronti delle risorse umane che non è in grado, o ritiene di non essere in grado, di valorizzare scatta l’atteggiamento che si ha nei confronti di un pericolo.

Tutto ciò e molto altro finisce per fare da filtro negativo all’ottenimento di una cosa che dal punto di vista del buon senso sarebbe ovvio ovvero la cittadinanza italiana per coloro che stanno qui, che sono cresciuti qui, e qui sanno vivere.

Esiste dunque quello che potremmo definire il fantasma del “qua”; di questo posto in cui stanno loro, i giovani di seconda generazione e in cui stiamo tutti noi, posto che siamo ancora soliti identificare attraverso delle definizioni anacronistiche che ci consentono un rapporto limitato con ciò che di reale vi è dentro, il “qua” che possiamo nominare Italia, però facendo scattare a questo punto l’automatismo forte, quello che dice “l’Italia agli italiani”, questo slogan che ha avuto ed ha oggi un ragguardevole successo, slogan assolutamente fantastico totalmente inapplicabile ma credibilissimo nel momento in cui significhi: una parte di gente che c’è qua dovrà essere messa nella condizione di non nuocere ad un sistema di equilibri tendenzialmente asfittico che non sa valorizzarla e non sa cambiarsi per valorizzarla.

Allora ecco che il discorso sulle seconde generazioni ci pone una prima questione che riguarda una dimensione politica e giuridica che va a toccare i nodi profondi di tale dimensione: è possibile immaginare un’identità plurima non semplicemente come un dato esistenziale identificato antropologicamente ma come qualcosa su cui si lavora giuridicamente, politicamente per valorizzarla? Qualcosa che dica: non è un casino, ma è un risorsa positiva e non dicendolo ideologicamente, ma facendo funzionare questa idea; è possibile in altri termini riuscire a concepire questa evidenza per cui si è contemporaneamente molte cose come un’evidenza a partire dalla quale si ragiona anche politicamente e giuridicamente?

Seconda cosa: è possibile riconosce la pluralità di dimensioni, penso ad esempio, al caso più evidente, quelle linguistiche, presente in questa complessità come qualcosa che può passare dalla parte della risorsa e della costruzione di un repertorio diffuso di abilità intellettuale più elevato di quello attuale e quindi più capace di produrre prestazioni complessive di sistema? E’ possibile provare a concepire l’idea di più lingue all’interno di questo Paese concepito non come concessione graziosa a chi avrebbe voglia di parlarne più di una ma all’interno di una idea di generale plurilinguismo che faccia innalzare le prestazioni complessive dei nostri sistemi di lavoro e di interazione sociale?

Credo che sia questo lo sfondo su cui ciò che possiamo chiamare seconda generazione si avvia a un superamento di quel tanto di ghettizzante che resta ancora nella sua definizione. Potremmo dire banalmente che processi in cui vi fosse ancora capacità di produrre mobilità sociale cancellerebbero in larga parte una parte di questi problemi. Dunque, il discorso sulle seconde generazioni mette in evidenza la relazione di diversi piani di discorso e ci chiama ad un lavoro di ordine teorico che abbia come sua funzione quello di riuscire a dare una sponda a tutta la dimensione del lavoro empirico e a tutte le dimensioni di pratica politica.

Noi oggi stiamo soffrendo per l’assenza di un sistema di luoghi comuni che sarebbero alla portata di un paese sensato. Probabilmente bisogna capire quali sono i processi attraverso i quali li si può produrre, altrimenti ci sarà sempre un modo per riuscire a ricostituire l’idea della specificità come la base di un’esclusione e riprodurre in maniera aggravata per noi italiani innanzitutto, volendosi chiamare così, questa situazione che ha un suo cuore nichilistico devastante che si sta mangiando la qualità della nostra vita in cui da una parte ci sono dei “loro” che ci fanno il grande favore di consentire delle identificazioni immaginarie e dall’altra parte uno schieramento di “hollow men” avrebbe detto Eliot, di “uomini vuoti” che siamo noi, giustificati dalla loro presenza a ritenerci identificati.

Come sono solito dire gli immigrati sono una risorsa non tanto per il lavoro che producono, anche, ma essenzialmente perché sono un grande liquido di contrasto che mette in evidenza i problemi nostri. Con gli amici delle seconde generazioni abbiamo un ulteriore elemento di complicazione perché loro sono contemporaneamente il liquido di contrasto e siamo noi che lo leggiamo. Auspico sempre di più che vi siano figli di immigrati o immigrati stessi che prendano sempre più la parola in maniera vigorosa e al di fuori di qualsiasi discorso di quote riservate come portatori di un sapere e di una reinterpretazione sulla realtà che noi complessivamente siamo, che comincino a spiegare ciò che succede qui e a prendere la parola come parte della realtà che c’è qui, in questo senso come italiani e anche altro. Perché ciò che c’è qui, e non parleremo ora della globalizzazione, è Italia e anche altro e forse da sempre l’Italia è sempre stata l’Italia e anche altro vivendo probabilmente i suoi momenti di decadenza tutte le volte che si è praticamente dimenticata di ciò. Una realtà culturale che dimentica la sua natura plurima vive questa dimenticanza come decadenza, perché in genere assume un rapporto di mera tesaurizzazione con se stessa come deposito di un passato.

Trascrizione della relazione del prof. Adone Brandalise ac di Enio Sartori tenuta all’interno della conferenza organizzata dalla rivista Trickster dal titolo “Seconde Generazioni: orizzonti di cittadinanza” svoltasi sabato 10 maggio 2008 presso il Master in Studi interculturali di Padova. Erano presenti in qualità di relatori:Mohamed Tailmoun della rete nazionale G2 , Sandra Kyeremeh (giornalista Metropoli), Annalisa Frisina (Università di Padova), Enio Sartori (Università di Padova), Adone Brandalise (Università di Padova). Articolo pubblicato su Trickster, rivista del Master di Studi Interculturali.