L’etica. I saperi del non cedere

La ripubblicazione oggi de Il Seminario, libro VII, L’etica della psicoanalisi, di Jacques Lacan sembra giungere tempestivamente a evidenziare gli sviluppi di un movimento interno all’evoluzione dell’evento psicoanalitico, maturato negli ultimi anni, che ha portato la questione dell’etica a divenire una condizione decisiva per l’assetto complessivo del pensiero analitico.

La revisione che Antonio Di Ciaccia procura del testo già tradotto nel 1994, cui egli stesso aveva contribuito in veste di direttore della traduzione, eseguita da M. D. Contri col concorso di R. Cavasola e con la cura di G. Contri, pervade il testo con una fitta rete di linee lessicali e fraseologiche di aggiornamento che fanno da liquido di contrasto nel marcare i mutamenti e soprattutto la registrazione di nuove esigenze teoriche che animano oggi la lettura del lascito lacaniano.

Più che mai, in questo caso, la traduzione ribadisce il suo rapporto privilegiato con l’intraducibile, ovvero con quel fare del testo, irriducibile all’oggettivazione di un significato, proprio perché ospita in un’altra lingua, e spesso in un altro tempo, la pratica che ne è l’effettivo presente.

Giustamente la traduzione deve far riemergere oggi il testo da ciò che una tradizione, che esiste anche come suo effetto, ha maturato come approfondimento e innovazione ad un tempo delle proprie ragioni.

In effetti, il seminario interagisce in maniera efficacemente diretta con il quadro delle questioni che la psicoanalisi rivolge a se stessa, ma incrocia anche la necessità di molti luoghi della nostra cultura quando in essi matura il problema del rapporto tra la loro configurazione epistemologica e il reale.

Il testo, infatti, rende con particolare evidenza una modalità frequente e necessaria del pensiero lacaniano e soprattutto della affabulazione, del dire seminariale lacaniano che, per andare al fondo delle proprie svolte, passa fuori di sé e apre quei percorsi necessari che chiamano la psicoanalisi là dove il suo accadere rappresenta un’esigenza nel contesto che l’ospiterà come qualcosa di estraneo e di indispensabile ad un tempo.

E questo ovviamente già riguarda l’etica, perché concerne, al di fuori di una prospettiva genericamente storico-sociologico-culturale, il rapporto tra la psicoanalisi e il mondo con cui essa convive. Un rapporto che diviene significativo quando non riguarda l’ambientazione dell’analisi all’interno di una realtà immaginaria, ma quando riesce a rendere evidente il problema del reale come ciò in relazione al quale si da, in tutta la sua radicalità, la questione dell’etica. Il seminario settimo è, non a caso, e non marginalmente, il seminario segnato dall’evocazione, per più versi illuminante, dell’amor cortese e dal circuito che si instaura tra attraversamento psicoanalitico della dimensione della tragedia ed emergenza di una dimensione tragica della psicoanalisi.

Dopotutto, è questo il movimento che caratterizza il proporsi della psicoanalisi come antifilosofia, ovvero come assunzione di un desiderio che la filosofia alimenta senza però rinunciare a proporre l’evidenza di ciò che in esso si dà come singolare. Quindi, antifilosofia come pensiero che assume il cuore pratico della filosofia stessa, situandolo in un sapere che si presenta come pratica in tutto ciò che lo costituisce, ovvero, si presenta come impossibilità che il soggetto dica senza essere attivamente in questione e senza che il linguaggio sia connesso apertamente con il suo fare. Lo si può scorgere nell’effetto di torsione che il modus operandi del linguaggio lacaniano procura nel decentrare l’assetto dottrinale dei filosofi che ne vengano contaminati verso ciò che, nella loro prestazione intellettuale, produce effettivamente problema.

In questo senso la centralità dell’etica nella psicoanalisi, che nel seminario si afferma “praticamente”, interagisce in modo drastico con tutte le formule pesantemente e debolmente filosofiche che presentano oggi l’etica come un complesso di protocolli o una forma nobilitata di problem solving, istituendo una tensione solidale tra Lacan e coloro che intendono oggi pensare l’etica come qualcosa di totalmente irriducibile alla chiacchera sul comportamento corretto.

Volendo ricondurre ad una formula sintetica la prestazione di questo seminario, formula che inevitabilmente si carica della potenziale indecenza dello slogan, si potrebbe ricorrere all’affermazione che ovunque guida il discorso affiorando in più versioni che variano di poco la sua lettera: “L’etica è non cedere sul proprio desiderio”. Viene allora a porsi, ed è a belvedere, il lavoro del seminario, cioè il problema di cosa effettivamente sia il desiderio su cui non si deve cedere e quindi di che cosa corrisponda, non immaginariamente, al non cedere sul proprio desiderio. Lacan avverte già qui come il percorso che egli seguirà in questo intento comporti un’apertura in direzione della “cura da prestare, non più al tale o al talaltro, ma alla civiltà e al suo disagio”. Ciò può farci pensare alla connessione intima che si istiuisce tra l’effetto dell’etica della psicoanalisi e la messa in questione del patrimonio complessivo delle categorie che oggi nominano i modi essenziali della nostra realtà, senza però istituire le condizioni per un confronto effettivo con il reale.

In questo senso, oggi si è forse più pronti a far fruttare l’affermazione per cui “l’etica dell’analisi non è una speculazione attinente all’ordine, alla disposizione di quello che chiamo il servizio dei beni. Essa implica propriamemente parlando la dimensione che si esprime in ciò che chiamiamo l’esperienza tragica della vita”.

Per un verso, quindi, l’etica consiste nel sottrarre consenso ad una rappresentazione del soggetto come intero, del linguaggio come dominato dalle pretese del metalinguaggio, dell’organizzazione sociale come realizzazione organizzativa, economica e burocratica del bene comune. In un certo senso lo sfondo negativo che qui si disegna tiene assieme orizzonte del welfare, psicologia e psicoterapia nel quadro più ampio delle funzioni ideologiche.

“L’esperienza tragica della vita” era, all’epoca del seminario, una locuzione su cui convergevano le linee forza di un vasto scenario filosofico, configuratosi lungo la prima metà del secolo e arricchito di nuovi corrugamenti negli anni, per dir così, dell’esistenzialismo. L’esperienza tragica, emergendo come dimensione della psicoanalisi, diviene soglia distintiva nei confronti di questa tradizione, scavando in quella che ne è la spinta promotrice per farla emergere con effetti di radicale perturbamento. Insomma, nell’insistere di tanto pensiero sulla tragedia vi è un desiderio che bisognerà evitare ceda proprio nel darsi filosoficamente e retoricamente una ragione.

Per la filosofia, come per la stessa psicoanalisi, “cedere sul proprio desiderio” significa soddisfarsi di sé come prodotto (e quindi concepirsi come bene e come servizio di qualità, dove l’aspetto merceologico è inevitabilmente quello dominante, onesto, ma limitante), ovvero agire come se ci fosse significazione, nonostante la ben nota funzione della barra del fatidico algoritmo. Attraverso la tragedia, si evidenzia che sul desiderio si cede sempre quando si pensa che non cedere sia l’ostinazione sull’oggetto, quando in altri termini, al desiderio viene impedito di essere la metonimia del nostro essere, oppure quando, come nel caso dell’eroe tragico, lo splendore della sua oltranza affida alla certezza della morte l’inflessibilità del desiderio. In questo senso, l’etica, così come Lacan la propone, spiega che se la psicoanalisi è, dopotutto, un modo per non fare, nel senso corrente, della vita una tragedia, ciò è possibile perché l’evidenza tragica per cui si vive perché si desidera, ma si desidera al di là della soddisfazione, può attraversare vitalmente la dimensione non eroica dell’esistenza “comune”.

“Il ruscello in cui si situa il desiderio, non è soltanto la modulazione della catena significante, ma quel che corre sotto, per la precisione, quel che siamo, e anche quel che non siamo, il nostro essere e il nostro non-essere – quel che nell’atto è significato, passa da un significante all’altro della catena, sotto tutte le significazioni”.

Forse non è un errore concedere un po’ d’attenzione al mormorio e alla sinestesia guidata dall’immagine dell’acqua che scorre nel ruscello che sostiene metaforicamente la modulazione della catena significante e ascoltare quindi, come implicato nel lavoro dell’etica, quel fluido sul quale più tardi Lacan vorrà porre l’accento quando sul godimento si tornerà al modo degli ultimi seminari.

Adone Brandalise

Testo pubblicato in Attualità lacaniana, N. 8, 2008.