Punti di vista e punti di contatto

Proponiamo l’articolo del Prof. Adone Brandalise pubblicato in Trickster – rivista del Master di Intercultura Università di Padova, Anno I, N. 1, Giugno 2006.

“Heidegger diceva che “pensiero” è “prendersi cura di”, forse si potrebbero tentare altre definizioni, ma certo bisogna, credo, riconoscere che pensare è comunque, in un certo senso dovunque, una qualità non ovvia, non banale, non scontata della nostra esperienza. Dicevo qualcosa che il nostro pensiero cerca costantemente di aprire, di rendere evidente, non sempre riuscendoci, forse anche la stessa filosofia è la vicenda di tentativi di riaprire costantemente questa cosa, anche costantemente riuscendoci e non riuscendoci, aprendola e richiudendola.

Intendo dire il nostro presente, il presente effettivo della nostra esistenza, non ovviamente, anche qui non son cose nuovissime, il nostro passato più prossimo o il nostro più prossimo futuro, ma quel tempo in cui noi ci decidiamo, in quel tempo in cui avvengono effettivamente le nostre pratiche, in quel tempo in cui noi effettivamente viviamo, anche se quasi sempre tendiamo, in realtà, ad aggirarlo, ad esorcizzarlo, a circoscriverlo attraverso sue immagini proiettate su presente e futuro. Questo nostro presente è, per così dire, sempre caratterizzato da un fondo scuro, presente in un certo senso sempre utopico, perché non si riesce mai a dargli una vera consistenza. Però in questo presente noi viviamo ed esattamente in questo presente che il nostro rapporto con quello che siamo soliti distanziare nella forma dell’altro ha la caratteristica di un contatto che non rappresenta, contrariamente a quanto tentiamo di convincerci, un episodio marginale e circoscritto di un nostro stare centrati in noi stessi, ma invece il luogo di un nostro originarsi.

Non ha molto senso parlare di intercultura se non si avverte questa evidenza che mentre noi siamo continuamente, prevalentemente soliti ritenere che sia giusto rappresentarci un po’ come un cerchio al centro del quale c’è il nostro io, la nostra soggettività, la nostra tradizione personale o culturale o nazionale o filogenetica, per così dire, e al margine, come sulle linee di frontiera, ci sono i contatti con gli altri, mentre invece, forse, dovremmo soprattutto pensarci come qualcosa che nasce ai bordi, che nasce lungo le linee di contatto perché, forse, noi siamo veramente non tanto nel nostro presunto interno in cui forse non stiamo in realtà mai e che rappresenta per molti versi una nostra proiezione, ma siamo sempre, per dirla un po’ al modo in cui Ortega Y Gasset era solito parlare del destino, forse, in un nostro continuo andar fuori e in questo nostro continuo andar fuori noi siamo sempre noi e quelle cose, quegli altri al contatto dei quali noi accadiamo e d’altra parte, tuttosommato, è forse una pruderie eccessiva quella che ci convince sempre a tacitare la dimensione del metabolismo della nostra vita, a concepire la nostra forma come una forma che dovrebbe essere perfetta, cioè non avere buchi, non avere orifizi, non avere contatti; mentre invece la nostra esistenza stessa è fatta di una continua porosità. Noi viviamo costantemente lungo il nostro bordo.

Per tanti versi noi potremmo dire che il problema di ciò che chiamiamo cultura è il problema di riuscire a riconoscere per aggregazioni di esseri umani che si ritrovano in una continuità di lungo periodo di forme dell’esperienza, di riconoscere come sia esattamente questo bordo, questo aspetto metabolico che prende e restituisce da tante direzioni e in tante direzioni ciò di cui si deve riuscire a riconoscere la fisionomia singolare. Non è vero, penso, che le culture non abbiano una loro ben precisa identità, ce l’hanno, ma è fatta del loro modo di vivere di tantissime cose, del loro modo di amalgamare, comporre, rideterminare cose che hanno provenienze diversissime, persone che hanno provenienze diversissime. Come possiamo dire, questa linea caratterizzante che non è in alcun modo riconducibile all’espressione di un’ipotetica sostanza sottostante, che non è la distillazione del permanere nel tempo di una comunità protettrice e padrona, ma è concretamente una alleanza, cospirazione fitta, intensa e dotata di una sua fisionomia tra eventi di contatto. Quindi qualcosa di simile a quelle superfici particolarmente ricche di cui in qualche modo Nietzsche si faceva a suo tempo rivendicatore contro la volontà riduttiva dei retro-mondi, quando sostanzialmente a chi diceva non bisogna guardare alla superficie delle cose, ma guardare la sostanza replicava che appunto, forse, la sostanza era astrazione e riduzione, mentre invece compito del pensiero era esattamente quello di non mentire sulla ricchezza variegatissima della superficie.
Ecco…lo dico perché allora probabilmente noi abbiamo un problema che forse è presente negli sforzi della pratica interculturale, quello di passare da un pensiero che trova le condizioni di rigore, di lucidità, sicurezza logica di una situazione di dominio della vista, teoretico in questo senso e di distanza, da uno del contatto che almeno per ciò che mi riguarda io non penso come il luogo di un caos gioioso, di una pura e perenne festa della dissoluzione soggettiva e neanche come il luogo di un puro godimento infinito della molteplicità o delle biodiversità, ma è essenzialmente il luogo in cui il pensiero è chiamato a compiere dei salti di qualità.

Ecco, allora, probabilmente, questo nostro presente in cui noi non siamo ancora del tutto pregiudicati, questo presente che non è solo un punto nella tendenza, questo presente in cui le cose ci possono andar bene-male, nella pratica interculturale lo si incontra continuamente: quante volte un contatto di incontro tra coloro che possono avere problemi ad intendersi può andar bene o può andar male? Quanto nonostante tutto è possibile produrre di ricco e di positivo e quanto di disastroso in una situazione in cui effettivamente ci si contatta. Ecco effettivamente situazioni di questo tipo sono piccoli esempi di come, in un certo senso, il presente non neutralizzato sia per tanti versi quella cosa che noi cogliamo nel momento in cui un contatto revoca la dittatura del punto di vista, nel momento in cui noi non siamo cioè solo la prosecuzione di ciò che crediamo di essere stati, ma siamo qualcosa che accade adesso, cioè non nella tabula rasa di tutto ciò che fa parte di noi, ma proprio mettendomi in gioco, togliendo dalla condizione di ciò a cui si rimanda per farne qualcosa con cui noi giochiamo delle carte in un momento in cui stiamo giocando effettivamente.

Questo potrebbe aprire in direzione di tanti problemi, ad esempio questo interessa chi fa per mestiere, se si può dir così, lo studioso, il problema di una revisione profonda del modus operandi, delle motivazioni e quindi degli stili con cui vivono tante importanti discipline e che della cultura si occupano, che a volte sembrano interessate più alla manutenzione delle proprie tecniche specialistiche, piuttosto che al riconoscimento dell’effettiva importanza nel presente dei materiali di cui si occupano. Ciò che ad esempio si riflette assai frequentemente in una concezione dell’intercultura come semplice conoscenza di un sapere degli altri, ad esempio il limite che si incontra sempre quando pensiamo si debba conoscere, ed è una cosa sacrosanta ovviamente ma bisogna intendersi, la tradizione e la cultura islamica, la tradizione e la cultura cinese e quella delle popolazioni africane, salvo poi pensare che i cinesi, gli africani, gli arabi siano semplicemente i portatori di quel retroterra culturale, al rispetto del quale quasi noi stessi dovremmo richiamarli per ottenere che il problema del rapporto con loro si educa al problema di una nostra adeguata conoscenza della rappresentazione che noi ci siamo fatti attraverso testi, documenti e altro della loro posizione nella storia. Ciò che d’altra parte, spesso, la nostra tradizione anche accademica fa oppure coinvestendovi grande intelligenza, grande sapere con le nostre stesse tradizioni rendendole forse artificiosamente più distanti e meno comunicanti con altre di cui a volte… a loro volta… si pretende di fissare un’identità al fondo stereotipo censurandone le dimensioni che potrebbero essere magari sovversivamente più da dialoganti con le nostre. Proprio per questo allora, forse, la congiuntura in cui possono aver senso le cose, se così è, che andiamo dicendo, è anche una congiuntura che ci propone un passaggio che almeno per alcuni versi può sembrare nuove all’interno di ciò che chiamiamo filosofia, ovvero sia la constatazione di come ciò che in qualche modo ci chiama e con l’intercultura è così, al fondo oso dire l’intercultura non nel senso della disciplina accademica, è qualcosa di molto filosofico, dicevo che ci chiama a cercare di riavviare l’esperienza del pensare riconoscendo costantemente l’ulteriorità del pensare rispetto al puro pensato e, quindi, di riconoscere al cuore dello stesso esercizio speculativo una pratica. Ora val la pena di dire che quando si parla di pratiche in questo caso si parla di qualcosa che non ha nulla a che fare con quelle pratiche che si concepiscono come il mettere in pratica qualcosa che sia stato predefinito. Significa invece, appunto, dire che il pensiero rischia di perdersi quando finisce per spegnersi nella rappresentazione anche la più affinata, anche la più attenta, che però occulti la temporalità concreta del pensare, la sua relazione in questo senso con la vita, il suo essere sempre qualcosa che anche fa mentre produce un pensato.

Così quando guardiamo al panorama del nostro paese a partire dalla sollecitazione che ci proviene dalla consolidata novità della presenza dei migranti stentiamo a registrare come forse ciò che dobbiamo comprendere è che ciò che abbiamo dinnanzi è una realtà inspiegabile se non la riconosciamo come un intreccio di flussi incomprensibili se costretti nei confini geografico politici ufficiali per effetto dei quali tutti possiamo dirci migranti, perché gli stessi processi che determinano il fenomeno dell’emigrazione anche hanno comportato per noi italiani un’emigrazione, certo più confortevole, ma non senza traumi, a casa nostra, lì dove era eppure lontanissima dal mondo che la circondava qualche decennio fa.

Il qui in cui oggi ci troviamo a vivere forse non l’Italia o il Veneto di sempre con l’aggiunta problematica di dosi più o meno massicce e varie tipologicamente di sostanze culturali diverse. Ovvero non è un’insieme di entità da ricondurre ad un loro sostrato identitario presunto puro, in cui riconoscere la loro unica vera natura e, ovviamente, il loro essenziale valore culturale, qualcosa che dovrebbe venir immaginato in una sua improbabile condizione semplice e autocentrica perché si possano comprendere le potenzialità di una situazione nella quale esse sono invece coinvolte insieme da processi che le sollecitano in modo ora diverso ora simile ma comunque impegnandole a rimettere in giuoco, inevitabilmente rideterminandone la concreta prestazione nel presente, quel complesso di tradizioni di cui è arduo cogliere l’effettivo gesto vitale sino a quando ci si limita a concepirle nella forma tesaurizzante ma anche neutralizzante del patrimonio culturale. Per non dire delle identità fittizie le tradizioni immaginarie evocate per alimentare una conflittualità ad un tempo acida e svogliata, dove l’astio e il disagio mal elaborato tengono il posto di motori più vitalmente robusti.

Se più che improvvisare visioni della realtà non ci sottraiamo al contatto con la superficie scabra e irregolare del reale, quel reale che un po’ lacanianamente costituisce lo scoglio sul quale vanno a infrangersi le nostre autorappresentazioni , allora ci troviamo premuti sul qui e sull’adesso, dove per dirlo nella forma più banale, non è né Italia, né Africa, né Cina, ma è un qui, in cui ci siamo noi, c’è l’Italia, ci sono frammenti di queste altre culture, ma soprattutto c’è la gente che si trova per lungo periodo, per breve periodo o per pochissimo qui, e sta nell’intreccio di ciò che la porta ad essere dove si trova.

La qualità della vita che caratterizzerà il luogo di questo intreccio probabilmente è legata alla possibilità che una pratica di parola, un insieme di discorsi, uno stile di pensiero assuma questo qui, che parli per questa cosa che forse non ha un confine esatto perché scappa da tutte le parti, che non ha un vero limite temporale, che non ha una durata predefinita, che è in constante movimento, ma che è il nostro qui. Forse in questa direzione si può sperare vada, in un itinerario sospeso tra gelate e primavere, qualcosa che si può chiamare la crescita della soggettività del migrante, che non è esclusivamente rivendicazione, legittima, se c’è, ed antagonistica, dell’identità culturale altra del migrante, ( certo, l’eventuale proliferare delle forme distruttive ne sarà la declinazione infelice ) ma la soggettività di chi si riconosce nel suo saper dar voce alla realtà complessa di questo essere qui. Come già avviene in tanti casi di migranti che non parlano per rivendicare una loro separata identità, ma per dar parola al fatto che sono qui, che sono per certi versi legati alla loro cultura e per alcuni versi legati alla nostra che hanno magari selettivamente assimilato, perché non saprebbero rinunciare ad esprimersi in italiano, in francese, in inglese o in altre lingue apprese, perché una parte significativa del loro pensare avviene in queste, mentre contemporaneamente ve ne è un’altra che pensa in altro modo e che vorrebbe essere in tesa a sua volta. Soprattutto parlano non tanto di come dovrebbe essere, il mondo alla misura della loro cultura, ma di ciò che siamo noi e loro nel nostro stare qui adesso.