L’amore e gli amori

Pubblichiamo l’intervento del prof. Brandalise all’incontro del gruppo Emmanuele “l’Amore e gli amori: nella relazione la fecondità” tenutosi l’11 novembre 2005 a Padova.
Qui il link all’evento originale, buona lettura.

Non sono molte, per chi vive in ambito accademico, le occasioni di ritrovarsi nel contesto di un dibattito che abbia caratteristiche di una partecipazione intensa di vissuto alle visioni intellettuali che sono, in qualche modo, un po’ per “drammatis” persone. Conseguentemente credo che sia anche ragionevole che il mio ruolo, questa sera, venga interpretato come quello, per usare un termine orrendo che si usa spesso in università, di “discusser”, di colui che in qualche modo incomincia a discutere la traccia che è stata proposta. Traccia particolarmente ricca e probabilmente traccia che, penso, i presenti siano già in qualche modo propensi a fare oggetto di loro interventi.

Una affermazione tra quelle che sono state così lucidamente proposte si presta, per una considerazione d’avvio – che consenta anche di collocare il mio discorso nella posizione, in qualche modo, da cui venga pronunziato. È stato detto poc’anzi: “l’umanità prima delle differenze”. Mi sentirei di convenire su questa affermazione ma solo ad una condizione: cioè che si concepisca l’umanità come ciò rispetto alla quale le differenze si espandono, si allargano; non come ciò a cui le differenze, in qualche modo, seppure cordialmente, possano essere ridotte. Posso pensare all’umanità come un “che” di unitario soltanto se questa unità non comporta la necessità di una potatura. E soprattutto se la concezione di questa unità non comporta la riduzione del mio atto di pensiero ad una modalità che lo cancella in ciò che esso ha di più proprio, cioè quella modalità che riduce il pensiero a qualcosa di pensato, in cui l’evento soggettivo del pensare sparisca. Perché qualora io accettassi questa condizione, e accettassi di pensare che il mio pensiero è soltanto una rappresentazione da me pensata, potrei trovarmi nella condizione di ritenere possibile una cosa che io ritengo “eticamente” ricca di conseguenze catastrofiche: pensare, e qui vengo a un argomento che è stato opportunamente usato, che l’uomo possa esaurirsi in una definizione. Che ci sia, in altri termini, un artificio potentissimo del pensiero che ci consenta di far passare l’uomo dalla parte di qualcosa di compiutamente detto, di compiutamente concettualizzato, che conseguentemente istituisca il tempo astratto di una definizione come una sorta di base a partire dalla quale saltare nel tempo concreto della nostra vita per regolarla con efficacia progettuale. Insomma una modalità militare del pensiero che è quasi sempre l’altra faccia di ciò che possiamo chiamare “un positivo esercizio filosofico” consistente nello schiacciare gli eventi nella condizione di una fattispecie riferite in qualche modo ad una sistematica. Un po’ come si fa con le farfalle quando le si infilza con un ago e le si mette in un album.

In questo senso, allora, quando si dice che l’uomo non è passibile di una compiuta definizione, noi non ci troviamo tanto ad arretrare di fronte a una impotenza e a una incapacità del pensiero, ma stiamo invece di fronte a uno di quei passaggi in cui il pensiero vede aumentata la sua capacità di rigore. Non pensare che l’uomo sia riducibile a una definizione non vuol dire non essere in grado di pensare abbastanza: vuol dire porre al nostro pensare una condizione più impegnativa e, secondo me, più capace di ospitare verità. Perché ci chiede non tanto di concepire l’uomo come un ineffabile, qualcosa di cui non si possa dir niente, ma di andarlo a cercare là dove è tutt’altro che ineffabile, cioè dalla parte di ciò che parla, che è tutte le volte che la nostra parola riesce a diventare, nella sua attività, una forma effettiva di ascolto, e tutte le volte che quando nominiamo l’altro non nominiamo un altro costruito per i comodi del nostro discorso.

Sappiamo che il cosiddetto altro è sempre già morto quando lo disponiamo nei termini che gli abbiamo predisposto nella nostra costruzione dialettica, anche se lo abbiamo messo su un piedistallo, anche se lo guardiamo con venerazione e ammirazione, però sottintendendo che deve stare fermo nella posa che gli abbiamo prescritto, dove noi lo venereremo, di fronte a quale saremo pronti ad ogni proscinesi. Ma che, per favore, non si muova, non si metta a parlare di suo sul serio. Qualora invece si batta la strada di una definizione dell’umano, e seguano a cascata le definizioni della vita, le definizioni, sostanzialmente, di tutta una serie di parole simbolo che hanno una pratica rigorosa quando vengono attraversate come matrici di discorso, non quando vengono imprigionate in conclusioni forzose di discorso; quando si imbocca questa strada si va verso un luogo preciso: che è la natura. Quella natura che viene nominata quando si dice “la natura di qualcosa”, e senz’altro quella natura di cui si parla quando si parla, ahimè, delle “leggi di natura”.

Si è parlato poc’anzi di “persona” io tendo invece, per diversa forse prevalente intonazione culturale, a non usare tanto questo termine quanto ad affidarmi ad una diffrazione, a una differenza che ritengo, per me, importante, tra tutto ciò che attiene a una nozione che noi usiamo molto che è quella di “individuo”. E l’individuo è essenzialmente qualcosa di molto ben definito, di molto rappresentato ed è modernamente costruito attorno all’asse portante della “supposizione di una sua volontà”. Chi è l’individuo modernamente? È una creazione fondamentalmente politica, è qualcuno di cui si può dire che “sempre vuole qualcosa” e a cui si può sempre imputare la sua volontà. E conseguentemente è sempre possibile imputargli dei bisogni, degli interessi, e istituirgli, relativamente, delle forme di rappresentanza. Insomma l’individuo è qualcuno di cui si riesce quasi sempre a dire che “è un qualcosa”, lo si può sempre ridurre a qualcosa. E nella vita politica di oggi noi abbiamo una infinità di politici che ci spiegano quali sono i nostri interessi, i nostri bisogni, addirittura, Dio mi perdoni, i nostri desideri, tutte quelle cose che dobbiamo pensare di dover ottenere, di dover difendere, di dover pretendere perché siamo così come siamo, esattamente come ci si dice che noi siamo, chiedendoci di essere profondamente convinti di essere così, e di agire perché siamo fatti così.

Rispetto all’individuo mi interessa di più un’altra figura che è quella del “singolo”. Il singolo è qualcosa che comincia a emergere quando non si può dire che “è questo o quello”. E soprattutto, proprio perché è sempre e soltanto lui, non è mai solamente lui. Perché il singolo non è qualcosa a cui si può ricondurre, come a una identità fissa, l’avvenimento umano. Il singolo c’è nel concreto di un accadere soggettivo, e un accadere soggettivo è sempre un qualcosa di più della ripetitività del nostro io. Questo mi sembra un punto di partenza, per me, importante, perché nel momento in cui si parla di amore, probabilmente proprio l’amore è ciò che ha bisogno di non essere ridotto a una definizione. Questo fondamentalmente per un motivo: esso sparisce non appena possa essere concepito come un qualcosa di cui si possa disporre, o se vogliamo come un qualcosa che un soggetto presunto costituito possa disporre come si fa di una propria proprietà.

Insomma per ricorrere a una definizione di uno psicanalista che io ammiro molto, “amore è dare quello che non si ha”. Ovvero dare qualcosa che è possibile dare non perché lo si prende come qualcosa di già fatto, di già esistente, che noi prendiamo dalle nostre proprietà, fosse anche il nostro corpo, ma qualcosa che riusciamo a dare solo se partiamo dal fatto che non lo abbiamo e possiamo solo crearlo attraverso quella cosa che è esattamente il nostro amore. Qualcosa che possiamo desiderare di dare ma che riusciamo a produrre soltanto nel momento in cui lo produciamo con l’altro. Qualcosa di così nostro da non poter essere qualcosa che sta sotto di noi. E d’altra parte nell’esistenza concreta ogni qualvolta si prova a risolvere un problema d’amore regolando qualcosa, non una cosa che non si ha ma qualcosa che si ha, denaro, regali, oggetti, probabilmente sul terreno di ciò che si chiama “l’amore” le cose non vanno molto bene, perché invece che dare ciò che non si ha, si è dato semplicemente qualcosa che si aveva. Dare ciò che non si ha è ciò che prevede esattamente un fatto di fecondità e di riproduzione. In un certo senso si può amare soltanto in qualche modo essendo creativi di se stessi e di altro. Il che in qualche modo significa che, così inteso sul terreno dell’amore, un puro discorso relativo ad atti di ordine fisiologico è sostanzialmente insensato.

Sotto questo profilo concorderei molto con un’altra affermazione del predetto psicanalista secondo il quale il rapporto sessuale è tra soggetti, non tra semplici sessi. Questo mi sembra abbastanza importante nella lettura che normalmente noi produciamo della cosiddetta tensione segnata dalle mille ipocrisie del nostro lessico tra sentimenti e sessualità, continuamente compare in realtà il fantasma oggettivale e riduzionistico: l’idea cioè che nell’amore vi sia un rapporto sessuale, ovvero sia che l’essenza del rapporto amoroso sia un incastro di sessi. Dove evidentemente per l’uomo la donna è la donna, per la donna l’uomo è l’uomo, e ovviamente, se si ragiona così, nel caso di una relazione omofila, qualcuno fa l’uomo e qualcuno fa la donna, e si va comunque ad incastro. Ma in questa immaginazione che cosa si scambiano i soggetti che stanno in rapporto? Si scambiano delle prestazioni, l’altra parte dell’incastro. Per ciò che riguarda il loro accadere di soggetti umani si scambiano molto poco o forse niente. Con ciò non voglio certo svuotare la sessualità, vorrei soltanto tentare di liberarla da quella che è una perfida funzione che le si fa svolgere, quella di essere il gancio in cui l’avvento del soggetto umano viene ridotto alla funzione di un dato fisiologico e su questo, peggio ancora, si costruisce il fantasma moralistico di un diritto di natura.

Sotto questo aspetto io non vorrei eludere un riferimento che è stato fatto in esordi,o probabilmente scomodo, quello di molti dibattiti correnti a proposito di pacs o altro: perché questo ordine di questioni identifica in maniera molto esatta quel complesso di rischi a cui si va nel momento in cui ci si affida a delle definizioni dell’umano, in cui ci si affida a delle definizioni dell’amore, in cui ci si affida nel momento in cui si perda il senso della complessità che si intende come singolo in relazione al sesso. È un rischio presente, mi sembra, in alcuni aspetti della riflessione operante nell’ambito della chiesa cattolica, ed è essenzialmente il rischio di far prevalere l’idea che non sia rinunciabile, in assoluto, il tentativo di trovare comunque sempre una soluzione che ha al suo centro un modello di tipo rigorosamente giuridico. Ciò che si può fare, ciò che non si può fare, dei comportamenti, al di là del vissuto di chi li vive, che devono essere di un tipo o di un altro, un lecito e un illecito, sempre rigorosamente divisi sulla base di un “che” di oggettivo. Come se sostanzialmente il rischio dell’effettivo accadimento umano, il rischio effettivo di un soggetto, che appunto si mette in gioco totalmente in tutte le scelte significative della propria vita, fosse un rischio da rifiutare per motivi di ordine pubblico, fondamentalmente.

Perché prevale la convinzione che vi sia una prestazione ordinativo-sociale, rispetto alla quale deve tacere lo scandalo o il miracolo di un evento singolo, che turba in qualche modo la riduzione formalistica ad un modello da seguire o da rifiutare. Dire che questo comporti una sorta di caos etico mi sembra un’affermazione caotica, forse indubbiamente questa è un’opzione che crea una grossa difficoltà nei confronti di un tradizionale rapporto tra diritto e morale. Ma forse segnala anche una esigenza che va molto al di là delle esigenze del vissuto, pure importantissimo, di coloro che sono omosessuali, di superare una visione del rapporto etico-morale come quella che in questo caso letteralmente fa soffrire intellettualmente – oltre che emotivamente – le persone omosessuali e in molti altri casi non dà il soccorso di una adeguata spinta vitale a una infinità di altre condizioni. Detto in altri termini: è possibile pensare di ridurre il religioso a questo?

Perché sotto questo profilo trovo più interessante, religiosamente, l’apertura al rischio del proprio accadere di chi in qualche modo si sa al di là di una sua pura e semplice riconduzione a un sistema di cose che si possono o non si possono fare, di quanto non possa esserlo l’ossequio. A ciò che si presenta come una legge di natura, ovvero sia come qualcosa che come tutte le leggi ha essenzialmente caratteristiche positive, cioè prodotte storicamente dall’uomo, a cui si attribuisce, per troncare ogni resistenza, l’irresistibilità che discende dal suo coincidere con un che di naturale che tronca ogni discussione. Allora probabilmente il problema non diventa quello di riuscire a riattivare un percorso in cui l’esistenza viva il momento della fecondità non come un incidente transitorio o riservato a pochi, ma una condizione attraverso cui si passa per riconoscere esattamente quella propria umanità al di là di qualsiasi rassicurante definizione. Sono a contatto io con la mia umanità fino a quando sono a contatto con una definizione che me ne è stata fornita? O ci sono nel momento in cui riesco a produrre un evento effettivamente umano? Sotto questo profilo, all’esordio, chi ha introdotto ha citato degli splendidi versi di Jalal al-din Rumi, un grande maulan dei dervisci rotanti, che in qualche modo ancora attira molti suoi fedeli al suo sepolcro, e che è probabilmente una delle voci più alte in assoluto della poesia mondiale, senz’altro di quella in lingua persiana. Nei versi che avete ascoltato avete sentito parlare di una coppia, quella di chi parla e quello di cui si dice “tu”. Il “tu” ovviamente è Sham di Tabriz, il sole di Tabriz, il maestro di maulan, ma anche Dio, e anche colui che è il “tu” in una qualsiasi relazione in cui risulti evidente la presenza del maestro e la presenza di Dio. Una relazione che non c’è se non ci sono i versi di Rumi, o se non c’è il sentimento e l’intelligenza che operano in quei versi, anche se magari i versi non sono scritti. Quello è un esempio in cui abbiamo indubbiamente la raffigurazione di una relazione concepita come un senso lato, nello stesso tempo abbiamo l’immaginazione di una relazione mistica e, in qualche modo, la produzione, attraverso la parola, di un evento che non sembra chiedere a chi l’ascolta, per essere umano, di dover tagliare un qualche pezzo di sé.

Per concludere, mi ritrovo davanti a questo paradosso: nel momento in cui la relazione omosessuale pretenda di definirsi rischia di restare schiacciata sotto il peso della definizione, ma quando la relazione eterosessuale pretende di essere pacificamente definita lo fa in una forma ancora più schiacciante. Paradossalmente, forse, soltanto una relazione così omosessuale da non essere necessariamente una relazione tra uomo e uomo o donna e donna, ma essere la relazione tra singolo e singolo – che poi può essere, dal punto di vista del sesso, tra uomo e donna, tra uomo e uomo o tra donna e donna – può permettersi forse di essere effettivamente qualcosa in cui si produce ciò che non si ha, e che è l’amore. Essere così singolo l’uno per l’altro da non essere l’incastro del proprio pezzo, in nessuna forma. Sotto questo profilo l’esperienza omosessuale porta con sé una grandissima capacità di stimolo a pensare in questa direzione.

Vive, perché anche questo è uno spunto che non voglio lasciar cadere, indubbiamente il rischio del narcisismo, il rischio della chiusura in se stessi, per il semplice fatto che qualsiasi soggetto umano corre questo rischio. Crediamo che non ci siano i narcisisti tra gli eterosessuali? Lo può correre ancora di più perché le forme medie di una accettazione sociale chiedono all’omosessuale il narcisismo e l’autoreferenzialità come sua prestazione assolvente, il contesto sociale come scambio della sua tolleranza: “siate narcisisti e siate esteti perché così possiamo concedervi qualcosa e nello stesso tempo essere rassicurati sul fatto che siete diversi”. Io ho guardato sempre con molto rispetto la rivendicazione di dignità da parte degli omosessuali attraverso la rivendicazione dell’omosessualità. Credo che si arrivato anche, forse, il momento di chiedere anche di non essere costretti a fare gli omosessuali per poterlo essere. Perché, come possiamo dire, è veramente poco naturale, e nello stesso tempo è veramente troppo naturale: sarebbe un bell’esempio di invenzione.