Lingue del comando e lingue del futuro

Di fronte all’elenco dei temi in cui è articolata la proposta di questo numero, sento anzitutto l’esigenza di provare a indicare cosa tiene assieme le diverse tracce che sono state proposte e hanno guidato i redattori. O per meglio dire vorrei indicare ciò che le rende reciprocamente necessarie. E in prima approssimazione la risposta che tendo a formulare è che un discorso oggi sul linguaggio e sul plurilinguismo ha bisogno di segnalare le ragioni della sua importanza in termini più vistosi e più radicali di quanto non avverrebbe nell’orizzonte di una apologia della pluralità delle lingue.

In che senso non è sufficiente una rivendicazione e tutela di questa pluralità?
È abbastanza spontaneo per chi abbia attribuito un significato rilevante alla nozione di intercultura immaginare il pluralismo linguistico come un orizzonte in cui collocarsi. E anche è agevole identificare uno schieramento di “nemici” nei confronti dei quali dare per scontata una irrimediabile ostilità. In realtà si tratterebbe a questo punto di comprendere cosa sia effettivamente in gioco in una compiuta opzione plurilinguistica. Intendo dire che al cuore di una problematica all’apparenza solo linguistica si manifesta un ordine di problemi che ha bisogno di essere nominato in altro modo; allo stesso tempo è solo ritrovando all’interno di questa problematica la centralità dell’elemento linguistico che si può rendere evidente la sua effettiva natura. L’orizzonte in cui nella riflessione interculturale, per vie diverse, si riconfigura la tematica relativa al linguaggio e alle lingue ha al suo centro l’approfondimento del senso di quella che è stata, nel corso della prima parte del Novecento, la svolta linguistica, in filosofia, nella pratica estetica e nella stessa politica. Non si tratta soltanto di registrare il fatto che il linguaggio non può essere concepito come il veicolo di contenuti che siano pensabili separatamente dalla loro messa in forma; non si tratta cioè semplicemente di sapere che non vi è, come è stato autorevolmente affermato, metalinguaggio, se questo significa “dire il vero sul vero del linguaggio”, ovvero dire compiutamente la Cosa che il linguaggio dice. E nemmeno basta più sintetizzare questa svolta ribadendo che nel linguaggio non si comunicano cose, ma innanzi tutto “ci si comunica”, che il soggetto non consiste come entità precostituita rispetto al linguaggio, per governarne strumentalmente le risorse, ma si costituisce in esso. Neanche conseguentemente basta ricordare che tutte le rappresentazioni sono costitutive di realtà e non rispecchiamento di una realtà che invece ci si rivela, quanto più se ne approfondisca il gioco, come una formazione immaginaria. Ciò che si profila come più necessario è il rapporto tra il linguaggio e il reale, altra faccia – se possibile ancora più ardua e “trasformativa” per chi vi si affacci – di quanto contenuto nell’ormai classica affermazione benjaminiana per cui l’essenza spirituale del linguaggio è sempre radicalmente ulteriore a tutto ciò che si situi come un contenuto del linguaggio stesso.

Come plana tutto ciò, che ha l’aspetto di una sorta di premessa, se possiamo dir così, gnoseologica, sull’attualità?
Per noi è abbastanza ovvio pensare in questi termini, però proprio per questo avvertiamo il bisogno di uno sviluppo ulteriore, un bisogno di pratiche. Ciò di cui avvertiamo l’esigenza potrebbe essere difficilmente compendiato nelle formule di una grande e folgorante saggistica, come avviene per molte delle cose che ho appena adesso ripetute. Quindi ciò che ci chiama in un discorso sul plurilinguismo non è un’esigenza protettiva, conservativa della biodiversità linguistica: qualcosa che sembrerebbe corrispondere a quella sorta di ecologismo della cultura che è stato il multiculturalismo, inteso come tutela del già avvenuto, del già esistente e quindi del minacciato, come tutela di ciò che si lascia riassumere nel segno di ciò che è rappresentabile come essenza. Le “essenze linguistiche” sono in via di estinzione, come essenze vegetali, prima ancora che per tutta una serie di fatti concreti che le minacciano, per il fatto di essere concepite sotto il segno dell’inevitabile spegnimento incombente su ciò che si presenta come un prodotto storico di cui si vuole la conservazione.

E dunque come va inteso nel tuo discorso il riferimento al plurilinguismo?
Il plurilinguismo a me interessa in un’altra chiave, che si profila nei testi di questo vostro numero quando si fa riferimento alla nozione di futuro. Da quel piano inevitabile che è il palinsesto teologico si ricavano i luoghi che nell’ultimo secolo sono riusciti a far emergere il religioso non come ossequio a un presupposto ideologico ma come necessità interna a un discorso intenzionato ad avere un rapporto con la verità, ovvero con quell’origine che il grande rivestimento mitologico della pratica più propriamente religiosa ha sempre concepito come un passato estremo e che la mistica ha sempre cercato di vivere come un presente in cui sottrarre la creatura alla condizione di evento successivo all’atto creatore. Se adeguatamente ascoltata nel suo esercitare un richiamo, attraverso il linguaggio, alla sua ragione e alle sue regioni più essenziali, l’origine si mostra come un futuro: le radici, in altri termini, sono sempre in cielo. E se l’antica fantasia di un’unità originaria mantiene la sua carica vivificatrice lo fa soltanto mostrandosi non come ciò a cui tutto va ricondotto, ma come ciò verso cui tutto, moltiplicandosi, si espande.

Mi sembra che tu senta l’esigenza di indugiare sulle premesse novecentesche di questa riflessione…
Quello che sto cercando di fare in questo momento è tentare di togliermi completamente, anche se magari sfilandomi in maniera lieve e con affermazioni un poco sostenute, da un atteggiamento di difesa del mondo dalla forza distruttiva del nichilismo. Cioè il discorso sul pluralismo si presenta spesso come richiesta di un argine ai processi omologanti. Può sembrare una manovra logica delle più banali, però a mio avviso questa stessa concezione è parte di un processo nichilistico. E tutto sommato la riflessione heideggeriana sul nichilismo ci ammonisce a considerare ogni resistenza al nichilismo come sviluppo stesso del nichilismo. Allora, come conclusione di questo mio caricaturale pastiche teologico, è opportuno richiamare un’evidenza, che è caratteristica dei grandi miti gnostici, quando non si fermano alla deprecazione dell’opera del demiurgo. Tutto ciò che rischia di portarci al fondo nel momento in cui lo si guardi come patrimonio pesante da difendere ritorna in primo piano quando lo si riesca a concepire come un evento presente che cospiri con l’emergere, adesso, di una novità. L’antico si può sempre salvare soltanto scoprendolo realmente nuovo, scoprendo che il suo movimento produce il nuovo adesso, radicalmente diverso da quando lo abbiamo percepito sotto il segno di un passato relegato a una mediazione storica. Forse ciò che noi vorremmo salvare si salva soltanto quando “riavviene” come inaudito e mai visto. Che poi è affermazione non peregrina quando verifichiamo il bisogno, generazione dopo generazione, di tornare a tradurre cose già tradotte, di riscrivere libri su argomenti su cui si era già scritto in precedenza. Tutte le volte in cui riusciamo a concepire un’opera letteraria non come qualcosa di cui noi rappresentiamo una post storia, ma un movimento che la apre. E questo è il punto centrale dell’esperienza interculturale così come noi la concepiamo: abbiamo l’esigenza di sperimentare un tempo in cui ciò che accade non è semplicemente la conseguenza inevitabile di una impostazione univocamente prodotta da un passato. Ciò che cerchiamo nella riflessione interculturale è un tempo in cui il nostro fare non sia privo di conseguenze. Non un tempo che “esegua” la continuità passato-futuro, secondo uno schema prefissato, che è ciò che ci viene presentato come la logica delle cose e che ci sottrae da un confronto decisivo con il reale.

In che termini il tuo ragionamento può riguardare l’esperienza delle lingue così come essa è sperimentata socialmente, nei media e nelle istituzioni?
Quando noi ci poniamo il problema della pluralità delle lingue, dei gerghi, dei dialetti, in realtà ci poniamo il problema della plausibilità di un mondo in cui i percorsi singolari possano non essere visti solo come declinazioni particolari di modalità generali, così venendo richiamati all’insignificanza rispetto a queste. E più ancora si tratta di concepire questo mondo non come un caos di eccezioni, ma come un ordine che si realizza in una prospettiva non riduzionistica. L’interrogativo è il seguente: perché dovrebbe essere augurabile che gli uomini vivano parlando lingue diverse e più ancora facendo di ogni singolo itinerario individuale qualcosa di non sostituibile con un altro, piuttosto che di trovarsi in un’unica lingua in cui nulla resti di oscuro o di affidato a qualcosa di diverso da un semplice contenuto cognitivo chiaramente convenuto? O se vogliamo, rovesciando la formulazione, quanto di noi stessi siamo in grado di sopportare senza che questo appaia insostenibile per il modo in cui si attua il rapporto tra noi e noi stessi come potere e come governo?

Mi sembra quindi che la svolta verso il pratico del tuo discorso miri alle scelte politiche generali, sulla quali peraltro pare attualmente molto difficile incidere. Cosa intendi qui con potere e governo?
Il primo concetto allude alla filiera categoriale dell’ordine politico, insomma, a quanto ci deriva dalla matrice giusnaturalistica: sovranità, monopolio della forza, rappresentazione, individuo, suddito, cittadino e poi ovviamente popolo sovrano, volontà generale, irresistibilità dell’ordine politico e infine processo costituzionale. Da governo discende invece l’altra grande tradizione concettuale, che pure si intreccia nella vicenda storica con la prima, quella per cui si ricercano forme d’ordine compatibili con l’esistente e che si riconosce come non fondato dal nulla, da una posizione originaria. Il governo elabora forme, tecniche, pratiche, nelle quali si imprime l’impronta più o meno profonda, a volte prevalente e dominante, a volte minoritaria, ma in una qualche misura condizionante, di tutti coloro che vi sono coinvolti. Tutti, in varia misura, governati e governanti.

Da questo punto di vista quella che qui potremmo definire “tradizione del governo” sembrerebbe più capace di confrontarsi “cordialmente” con una realtà che ci appare oggi in grande cambiamento…
La tradizione del potere è sempre narrazione dell’origine del potere. La tradizione del governo parte dal presupposto che chiunque si trovi a governare si trova sempre in una situazione in cui non detta tutte le condizioni, come in una sorta di atto creativo universale. Sono due cose molto diverse, che si trovano molto spesso intrecciate nel concreto storico: anche nella forma politica più assolutista, esistono aspetti di governo. Il senso di una ricerca come quella di Foucault, da questo punto di vista, è stato quello di concepire il potere non come detenzione di una Herrschaft assoluta da parte di un sovrano, ma come corpo a corpo tra chi governa e chi è governato, con l’aderire, il variare di forma, producendo insieme la vera forma del potere. È il senso degli ultimi seminari, quelli sulla Biopolitica, sulla Pastorale, tenuti al Collège de France prima della morte, che non a caso sono stati presi in considerazione negli ultimi anni, perché a mio avviso ingrandiscono otticamente quella zona in cui la presa formante giusnaturalistica si metteva quotidianamente in questione cercando con la realtà vivente su cui si imprimeva il consenso. C’è sempre una forma di contrattazione che dà vita al potere. Anche lo schiavo detta delle condizioni, in certo senso. E questo è un discorso che ci torna buono quando si parla di letteratura e di vicende coloniali, dove la rappresentazione delle culture incluse può continuamente, nello stesso spazio prodotto da chi le rappresenta, per la stessa forza della scrittura, assumere una forza confliggente con il complesso ideologico che pure le inquadra. Pensa a Kipling, una grande celebrazione dell’imperialismo inglese, nella quale riaffiorano continuamente energie della cultura inclusa che, ricondotta nelle spire dell’apologia dell’esperienza coloniale, anche è capace di mettere in campo qualcosa che effettivamente agisce dalla parte della cultura subordinata.

Proverei a tornare al plurilinguismo…
Il problema del plurilinguismo non sta a valle rispetto a ciò che è il nodo del linguaggio nei momenti cruciali del nostro pensiero e della nostra pratica scientifica, non è qualcosa di socio-logico, su cui si possa operare tenendo in piedi tutta una serie di finzioni che sono il prodotto di una mediazione culturale, quella che è stata realizzata attraverso lo Stato e che oggi si vede coinvolta in un rapporto inadeguato con ciò che si sta producendo.
Quando si pensa che più lingue dicano la stessa cosa e che quindi sarebbe sufficiente accordarsi di dirle in una lingua sola, si è altrettanto rinunciato a porzioni di nostra realtà umana e conseguentemente, con la convinzione di aver eliminato una complicazione, abbiamo rinunciato a una pluralità di modi del fare che potevano rappresentare una nostra risorsa. Questo non significa concepire come immortali tutte le forme di lingua, ma riconoscere la positività degli eventi che producono pluralità di lingue nella loro relazione vicendevolmente potenziante. Quando noi diciamo temerariamente che nelle scuole bisognerebbe insegnare la “lingua prima” degli immigrati, sembrerebbe quasi che si stia cercando rogne, visto che sembrerebbe già problematico insegnare la lingua italiana. Ma questo perché appare difficile concepire uno scenario in cui sia possibile e utile l’esperienza contemporanea di più lingue.

L’esperienza linguistica che vediamo sperimentata nella nostra quotidianità la giudicheresti segnata dall’impoverimento?
Noi ci troviamo costantemente di fronte a forme di sparizione di complessità linguistica, ovvero ci troviamo sempre di più di fronte a una proposta di linguaggio concepito come selezione di forme stereotipe all’interno di menù predefiniti. Ora però questo stesso procedere da grande rappresentazione nichilistica verso un linguaggio senza pensiero e senza invenzione si attua all’interno di un processo che anche decompone tutte le forme che classicamente hanno consentito ma anche limitato l’esperienza della pluralità delle lingue e della natura multipla delle identità. Si apre cioè lo spazio per delle evidenze in precedenza schermate: se per un verso noi constatiamo la continua proposta di un rapporto sempre più riduttivo ed eticamente neutro con il linguaggio, anche nello stesso tempo ci troviamo di fronte a un quadro di complessità sociale in cui si ritrovano livelli e aspetti diversissimi di elaborazione linguistica. Esiste, anche se segnata da afasia e da balbuzie, un tentativo di risarcimento gestuale, una richiesta di linguaggio non stereotipato, non nichilista, che ad esempio rende in molti casi immediatamente godute le mescole linguistiche più diverse e a tratti più dissonanti. La formula fusion per un verso sembra indicare l’azzeramento di tutto nell’indifferenza delle merci offerte a un mercato sempre in saldi di fine stagione, per un altro indica il coglimento di una solidarietà attiva, cioè legata a pratiche possibili tra eventi linguistici diversi.

Vorrei portarti in direzione di quella attualità che sino ad ora il tuo discorso ha preferito lambire. Uno dei temi più problematici del dibattito sulle lingue in ambito italiano è oggi quello concernente i dialetti, sollevato dalla Lega in termini molto somiglianti a ciò che Slavoj Žižek definirebbe lo scabroso. In questa scelta leghista c’è anche la volontà di rompere un tabù o di valicare alcuni limiti taciuti del dibattito nazionale sull’identità linguistica. Tanto più in quanto è una cultura che potremmo dire democratica, tra Gadda, Pasolini e Zanzotto, ad aver contribuito in modo determinante a ripensare il ruolo dei dialetti nella vicenda linguistica repubblicana, ecco che appare grave oggi la difficoltà di prendere parola politicamente in tale materia, rischiando di lasciare pieno spazio alla proposta altrui.
Si dovrebbe cominciare da una premessa: tutti i termini di un discorso sul pluri e il monolinguismo sono ciò che essi diventano nella pratica che li assume. Il dialetto noi l’abbiamo percepito per molto tempo come il luogo di un dire intimo, quasi originario e, parola rischiosissima, autentico. Non a caso una vasta tradizione democratica ha rivendicato nei dialetti il luogo di un vissuto che il sistema della cultura alta non poteva esaurire nelle proprie definizioni, che andava recuperato, magari divenendo a sua volta un elemento di potenziamento e di arricchimento della stessa cultura alta, indotta da questa esperienza plurilinguistica a sviluppare una maggiore complessità e capacità di ascolto. Esperienze che si sono espresse in dialetto avevano riferimenti culturali complessi, da Edoardo de Filippo ad Andrea Zanzotto o Luigi Meneghello. Quella del dialetto è un’esperienza della complessità, del cosmopolitismo, è una esperienza colta e intellettuale. Le epoche in cui il dialetto è stata una lingua complessa e in cui si è espressa buona parte della vita di una comunità, il dialetto stesso era capace di riconoscere in sé a sua volta più registri. I dialetti avevano un pluralismo interno su cui si articolavano: un aulico dialettale e un plebeo dialettale. Pensiamo solamente al gioco tra dialetto cittadino, aristocratico, del contado, al gioco tra registri dialettali nella letteratura.

Quale è stato a tuo avviso il limite delle politiche culturali e scolastiche dal dopoguerra in poi?
In Italia con i dialetti è accaduto che il complesso della trasformazione socioculturale non è arrivato a sollecitare un grado così elevato di plurilinguismo da poter far crescere un rapporto con la lingua italiana non trainato solo da esigenze pratiche di inserimento nei circuiti funzionali parlanti la lingua italiana, ma da poter attribuire importanza nei rapporti sociali più rilevanti (politici, industriali) a un sentimento della qualità e dell’affettività espressiva come quelle che potevano essere veicolate dai dialetti. Cioè, invece di avere degli italiani in grado di parlare un eccellente italiano e degli eccellenti dialetti, abbiamo visto imposto un italiano con inflessioni dialettali, in convergenza con un dialetto sempre più italianizzato ed impoverito. Oggi non a caso il dialetto rischia di essere utilizzato come una caricatura della lingua nazionale intesa come lingua dello Stato: rischia di essere presentato come il feticcio identitario della piccola patria in grado di imporre la conoscenza della propria lingua come da sempre lo fa lo stato nazione con chi vive entro i suoi confini. È evidente allora che la caratteristica complessità, materna e paterna ad un tempo, del dialetto (materna e paterna perché tiene assieme l’evocazione di una dimensione primaria, fisica, sensoriale, con una dimensione invece di ordine, di gerarchia, di sistema arcaico di relazione), viene ora a ridursi a una improbabile e irreperibile lingua identitaria. Nel dialetto ripensato e vagheggiato sino ad anni recenti c’è stata tutto sommato la rivendicazione di un vissuto caldo, latteo, che però corrispondeva a una realtà che si riconosceva anche dura. Come a dire, io posso essere affezionatissimo al mio vissuto in una società dialettofona dove il dialetto è però anche autoritarismo e limitazione. Posso farci poesia e nello stesso tempo riconoscere i modi in cui una società si adatta alla durezza del vivere. O, se si vuole ricorrere a una classico repertorio di luoghi comuni: si stava meglio quando si stava peggio; si era più poveri, si avevano meno divertimenti e libertà, ma eravamo più contenti, con una voce ulteriore immediatamente ad aggiungere: “sì, ma forse pensiamo così semplicemente perché a quel tempo eravamo giovani”.

Eppure mi domando se il dialetto non venga utilizzato scientemente oggi come lingua del comando immediato: un sistema produttivo che ambisce, come direbbe Ortega y Gasset, alla acción directa, trova nel “naturalismo” e nello spontaneismo del dialetto una lingua di comando e di concretezza. Oggi cosa è il dialetto?
Il dialetto diventa effettivamente oggi qualcosa di staccato dall’esperienza di un concreto dialetto. I dialetti beninteso continuano a esserci, anche se per lo più segnati da devastazioni nevrotiche (se un tempo il rituale blasfemo aveva aspetti di religiosità rovesciata, oggi la blasfemia è una decomposizione chimica devastante che non lascia più riconoscibilità al dialetto stesso). Ma il dialetto viene invece invocato a livello politico al di fuori delle esperienze che se ne possono avere, come ciò che dovrebbe aprire o chiudere le porte alla fruizione di diritti di cittadinanza. Poi, come dici anche tu, l’obbligo del dialetto si rivolge ai migranti, come l’Afrikaans imposto ai negri nell’Africa dell’apartheid. Vi è l’affermazione di un “diritto” a entrare in una comunicazione linguistica avvertita come più comoda per esercitare un comando con livelli di prestazione di bassa qualità. Ma il dialetto è così in contraddizione con se stesso: mentre il dialetto, come ci insegna Meneghello, è quella lingua che cambia di stanza in stanza nella stessa casa, il dialetto lingua micronazionale dovrebbe consentire di distinguere chi lo parla da chi non lo parla esattamente per consentire discriminazioni e respingimenti. E gli stessi dialettofoni sarebbero sottoposti alle stesse discriminazioni. Il dialetto concepito insomma come lingua che non riconosce la necessità della complessità sociale, o meglio che riduce la lingua alle sue determinazioni esclusivamente tecniche. Il luogo dell’attribuzione di senso viene mantenuto a una condizione di semplicità che rifiuta la complessità. Internet, le reti, la comunicazione: pure tecnologie da imparate ad usare. Ma il luogo in cui si decide ciò che si fa dovrebbe funzionare con categorie e registri discorsivi che con tale complessità non hanno nessun rapporto. E questa concezione politica sembra dire: “una regione come il Veneto non ha bisogno dei professori, dell’università e delle scuole per governare”. Si può lavorare con la Cina e il Sud America, con la rete etc, ma i concetti con cui si decide questa complessità sono gli stessi con cui sempre si è vissuto a Cittadella o a Oderzo. Questa classe dirigente si rappresenta come capace di agire senza complessità di discorso.

Hai fatto accenno ora a internet, cioè ai nuovi media. Se i vecchi media e in particolare la televisione e la stampa sembrano largamente conniventi con le scelte linguistiche sperimentate in questi ultimi decenni di vita repubblicana, i nuovi media e in particolare internet sono anche un luogo di fortissima sperimentazione linguistica. Qual è il tuo atteggiamento nei confronti di questa dimensione sociale e culturale?
In Italia le forme di censura più efficaci sono esercitate in modi raffinati e “concordatari” sui media generalisti. Il popolo italiano è un popolo non tanto informato quanto formato sui palinsesti televisivi dei media nazionali. Un certo sistema di vuoti e pieni culturali ha un vincolo strettissimo con questa realtà ed è chiaro che le agenzie che agiscono di più controllo sociale sono abbastanza affezionate a questa prestazione, anche se sono legate a centri di interesse che non possono non essere in comunicazione con il prodursi del cambiamento. Vedremo cosa accadrà nel clash tra televisione e rete, quando vi sarà per nuovo utensile dell’intrattenimento domestico una televisione con possibilità di scelta paragonabili a quelle oggi sperimentabili in rapporto a internet.

Bisogna dire che da questo punto di vista l’Italia la sua scelta l’ha già fatta, privilegiando in modo anacronistico il digitale terrestre e trascurando la banda larga. Inoltre i luoghi dove si fanno le politiche (grandi giornali e lobbies varie) stanno da tempo discutendo considerevoli restrizioni della sperimentazione informatica, cioè della sperimentazione di nuove forme di espressione sociale e individuale.
I nuovi media sono grandi innovazioni linguistiche, grandi innovatori di complessità sociale: sono trituratori di complessità ma anche innovatori di complessità. La realtà di internet bisognerà giungere a vederla non soltanto dentro internet, non soltanto nello spazio autistico della rete, ma anche nel suo riversarsi in spazi esterni, nella vita di persone non indotte a cadere nella vertigine di una vita solo in rete. La fantasia che ha segnato alcune epiche recenti, per intenderci quelle da Matrix, insiste sull’immaginazione del trasferimento della vita in rete. Questo è ancora un rito di assimilazione di un fenomeno come la rete, mentre una più avanzata elaborazione prevederà l’intreccio di situazioni all’interno della rete con altre fuori della rete, cioè l’incorporarsi di internet in situazioni di vita che non si svolge nella rete. Ma anche questa seconda condizione è legata a scelte capaci di concepire i processi plurilinguistici non come una malapianta da potare ma come un giardino da cui raccogliere primizie.

All’inizio, parlando di nichilismo, hai fatto accenno al linguaggio teologico e dei mistici. Ti chiederemmo qualche parola sul ruolo della poesia, nel suo tentativo di revitalizzare il rapporto tra significato e significante.
Per me la poesia è sempre stato il luogo in cui la parola si rifà puro suono, venendo rinviata al silenzio che l’ha iniziata. Le parole riportate al non detto fanno la poesia. Il luogo della poesia è totalmente altro rispetto a una riduzione del linguaggio al proprio contenuto. Quando le scienze sociali si colgono come parte di processi che toccano l’estremo possibile della libertà esse stesse avvertono la necessità di quello che io definisco un “cuore poetico”, ossia di essere richiamate ad un gesto di generosità nei confronti del mondo, a quel meglio di sé che non è riconducibile a un protocollo, a una meccanica intellettuale. Le scienze a mio avviso sono costantemente chiamate al riconoscimento del nuovo e non alla sua omologazione come già noto e quindi come controllabile. La poesia, diceva Heidegger, è ciò che dà da pensare. Io direi che la poesia è ciò che indica all’interno della stessa impresa conoscitiva l’elemento più creativo, senza il quale la scienza non riesce a prodursi e senza il quale diventa produzione di conoscenza fittizia.

Ti chiederemmo un’ultima riflessione a proposito della novità di esperienza linguistica che sperimentiamo oggi. Quali sono le frontiere delle lingue oggi?
Come nella dimensione spaziale, noi assistiamo oggi – e il fenomeno migratorio esalta questo dato – a un processo che allo stesso tempo sembra dissolvere tradizionali confini come quelli dello Stato nazionale e produrre una continua rideterminazione di confini disposti su piani diversi. Insomma al piano su cui si disponeva un tempo la linea di confine dello Stato si sostituisce ora una complicata stratificazione scistosa fatta di molti piani su cui si disegnano e si rideterminano confini sempre diversi. I linguaggi speciali, tecnici, i gerghi, le parlate, sono elementi essenziali di questa dinamica di nuovo cangiante confinamento e sconfinamento. Se si vuole, per riprendere le formule deleuziane, oggi non obsolete, siamo in presenza di continue territorializzazioni e deterritorializzazioni. È a questa altezza che l’opzione che vuole ritradurre non come processo riduttivo ma come riconoscimento attivo di una pluralità può agire per giocare una volta di più il confine come linea di contatto e di osmosi e non come sbarramento e ostruzione.

Editoriale in forma di intervista a Adone Brandalise, a cura di Andrea Celli e Anna Ciampaglia uscito su Lingue future. Dialetti, monolinguismi, lingue originarie – Trickster, Rivista del Master in Studi Interculturali, n. 8, aprile 2010

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