Presentazione di “Spaesamenti”

Pubblichiamo la presentazione di Spaesamenti, raccolta di racconti frutto del laboratorio di scrittura di Enio Sartori per Immaginafrica, tenutasi al caffé Pedrocchi domenica 7 ottobre 2017. Il volume è disponibile a questo indirizzo.

Spaesamenti: questo titolo sembra istituire una volta di più un nesso tra identità degli autori e quella che potremmo chiamare la suggestione della letteratura migrante. Non vorrei però partire da questo e probabilmente andando avanti tenderò a sottolineare come la formula di una letteratura migrante oggi abbia bisogno in parte di una archiviazione, in parte di una radicale ricodificazione.

A pensarci bene Spaesamenti potrebbe essere un buon titolo per un’antologia, anche ambiziosa, della poesia in particolare e della letteratura in generale, dell’ultimo secolo. Mi riferisco alla scoperta in vario modo avvertita, e che per certi versi fa massa con quella sorta di svolta linguistica che all’inizio del secolo scorso opera all’interno di tutte le dimensioni dell’esperienza intellettuale ma soprattutto estetica: la scoperta che – per dirla con una formula nota – dove siamo, noi non parliamo e dove parliamo, noi non siamo. Lo spaesamento in questo senso è quello che ci caratterizza quando avvertiamo che il nostro feticcio identitario, la nostra identità, il nostro ritratto, la nostra autodeterminazione descrittiva, lascia in realtà spazio ad altro, ad un altro che sta nel luogo dove noi realmente accadiamo.

È per questo che la letteratura ha sempre una caratterizzazione autobiografica, ma non nel senso – questo riguarda anche le autobiografie migliori – che l’autore ci parli dei casi proprio, ma nel senso che autobiografico è il fatto che scrivendo ci si costruisce, ci si produce. Si dilata un tempo che è il tempo presente in cui balziamo a ritroso sul nostro passato e, invece di subirlo, lo trasformiamo nel materiale di costruzione di qualcosa che facciamo adesso, diventando ora quello che siamo. Insisto su questo aspetto che rinvia a una scrittura dell’ascolto più che della proclamazione, per un motivo: probabilmente tutta la grande vicenda della letteratura più significativa dell’ultimo secolo, se per un verso rende complicata e forse insostenibile la pretesa di fissare un’identità, proprio per questo rende indiscutibile la forza della singolarità dell’evento umano. Tale elemento è quello che ha agito in maniera più potente nella ideazione di questo progetto e nella partecipazione degli autori.

Innanzitutto questo è un testo che saluta da lontano l’idea che ai cosiddetti migranti si debba garantire una conoscenza della lingua italiana di carattere banausico, utilitaristico, ovverosia – detto nella maniera più brutale ma anche più adatta: la conoscenza della lingua che serve a obbedire. Tendiamo sempre di più a concepire che il nostro rapporto con la lingua – lo stesso rapporto con l’inglese che giustamente proponiamo a tutti i nostri giovani – serva a compiere alcune operazioni che ci vengono prescritte. Una sorta di kit di sopravvivenza che prescriviamo a tutti: buona conoscenza del computer e dell’inglese, perché i servi del nostro tempo devono sapere queste due cose.

Non si tratta di questo, né si tratta di un libro di testimonianza, anche se certo è possibile ricavare una filigrana importante di testimonianze. Non credo si debba guardare al correlato oggettivo di questo libro, non dobbiamo cioè vederlo come un documento che ci racconta di cose. La cosa da avvertire in primo piano è che qualcuno che sta scrivendo adesso sta sforzandosi, con buoni risultati, di pensare e scrivere originalmente. Certo, per farlo magari a volte ci narrerà cose che ha vissuto, ma la cosa che ci sta effettivamente proponendo è adesso ora questo vissuto lo sta trasformando in qualcosa che sta facendo ora, e che ora è in grado di farlo. E che adesso questa cosa va presa per se stessa, come un’operazione di scrittura tout court, per la forza che ha di imporre una sua necessità interna come guida e fidelizzazione – magari per un quarto d’ora – di un lettore. Questo è molto importante perché così ci troviamo di fronte a un atteggiamento che oggi non è tenuto molto presente, anche se si afferma di tanto in tanto.

La tendenza generale prevede che i percorsi singoli devono essere portati a concorrere verso una sorta di significato comune, in qualche modo riduttivo. Nel caso delle scritture di coloro che provengono dalla migrazione, in qualcosa che possiamo definire un discorso compatto sul migrante. Qui abbiamo un atteggiamento diverso e politicamente importante: quello che consiste nel ritenere che la pluralità, la diversità delle direzioni, l’irriducibilità dei risultati singoli, non vanno compattati, ridotti a un comune denominatore, ma casomai valorizzati nella loro diversità, perché è questa che ci impone di pensare in maniera ordinata e coerente all’altezza di tutto ciò che essi ci dicono, senza a ridurlo per poterlo far quadrare con le nostre idee ricevute, con le categorie che già abbiamo.

La letteratura dopotutto ha questa funzione rispetto al pensiero: deve provocarci a tentare di pensare in maniera adeguata alla ricchezza della realtà che essa ci mostra. La poesia ci mostra sempre una verità e i nostri discorsi, in genere, la fanno a pezzi. La poesia chiama il nostro pensiero a modificarsi dall’interno per essere adeguato a non mentire su ciò che vediamo. La cosa è più importante di quanto si pensi, non è un arzigogolo estetologico. Di tanto in tanto vediamo terribili fotografie che ci parlano della sofferenza dei migranti sulle vie delle migrazioni: proviamo una grande emozione, smettiamo di essere emozionati e i nostri discorsi restano quelli di prima. La funzione dell’esercizio poetico sta nell’impedire che i discorsi che facciamo prima di aver letto qualcosa di importante continuino a essere invariabilmente i discorsi di prima. Per far questo dobbiamo valorizzare ciò che in una scrittura non ci porta verso un risultato già acquisito prima di cominciare a leggere: dobbiamo valorizzare la complessità, vederla non come qualcosa da ammazzare, ma come qualcosa con cui intrattenere un rapporto ricco che ci metta nella condizione di veleggiare all’altezza del panorama che essa ci propone.

Questo credo sia un aspetto da sottolineare perché è per questo che si decide che delle persone, che teoricamente non dovrebbero avere un rapporto particolarmente ricco e sciolto con la nostra lingua, vengano invece presi sul serio come soggetti in grado di praticare in maniera creativa. Questo come capite ha in sé un’implicazione, che potremmo tradurre in un’affermazione: di qualsiasi evento umano, di qualsiasi persona, quale che siano la sua età, provenienza, storia, si possono fare cose interessantissimi e meravigliose, qualora la cooperazione umana li metta nella condizione di esprimete effettivamente i loro potenziali. Qualora esista almeno una parte, magari piccolissima, del nostro mondo, che chieda loro di fare il meglio che possono fare. Cosa che mi pare si sia fatto in questo piccolo esperimento in cui chi lo dirigeva chiedeva a coloro che partecipavano di non limitarsi, di dare il meglio e di affrontare un percorso di formazione per rovesciare ciò che veniva appreso in qualcosa che veniva attivamente saputo, all’interno di un gesto che veniva vissuto come originale.

Ciò mi richiama a una serie di esperienze interne a un mio percorso di studio, bizzarro e multidisciplinare. Paradossalmente anche la conoscenza dei fatti sociali – che noi vogliamo scientifica – può molto giovarsi di un simile atteggiamento. In realtà la provocazione di una pluralità che non accetta di essere potata è quella che può sollecitare gli apparati concettuali con cui siamo soliti interpretare i processi che stanno ridefinendo il nostro reale in una forma nella quale la capacità di operare con forza razionale si sposi anche con l’abbandono della presunzione di ridurre le cose in cui ci imbattiamo in mero saputo, in qualcosa di oggettivato. Riuscire a tenere assieme il rigore della ragione, cercare di essere radicalmente sorpresi, di sorprendersi ogni volta, accettare che la cosa che ci sorprende ci faccia cambiare di orientamento perché ciò può consentirci di produrre qualcosa si importante: questo è l’atteggiamento che dovremmo riuscire ad allevare in noi.

Invece viviamo sostanzialmente – e non riguarda solo la vicenda della migrazione – la tendenza a ritenere che tutto ciò che può tranquillizzarci consiste nel riportare qualcosa che accade adesso a qualcosa che pretendiamo di sapere già. Su questa via sentiamo continuamente tutti che ci dicono che si sa quello che vogliono i giovani, si sa quello che vogliono le donne, i mussulmani sappiamo benissimo quello che sono e noi stessi siamo quella robaccia che siamo. C’è una gigantesca capacità di auto deprezzamento della nostra umanità contro la quale è importante esistano non solo gesti simbolici, ma anche importanti pratiche. Quella che si è concretata in questa esperienza e che è precipitata in questo libro fa parte di questo panorama di eventi positivi in qualche modo incoraggianti. Anche se prendere sul serio un lavoro come questo consiglia di essere molto vigilanti sui propri ottimismi, proprio per poterli conservare.