Pubblichiamo il testo tratto dalla conferenza sul tema “Prima la musica e poi le parole?”, tenuta da A. Brandalise, dell’Università di Padova, il 28 febbraio 1989, poi pubblicato in A. Busato, R. Calabretto (a cura di), La parola della musica, Edizioni Concordia Sette Pordenone (Centro Iniziative Culturali Pordenone), Pordenone 1994, pp. 21-33.
In realtà il titolo con cui è stato annunciato questo incontro identifica un problema che, almeno in questa direzione, prevalentemente ha animato tutta una lunga stagione di querelles all’interno di un settore particolare della produzione musicale che è quello del melodramma.
Una vexata quaestio
Prima la musica o prima le parole è una vexata quaestio che per molto tempo ha contrapposto compositori e produttori di testo all’interno di questa particolare forma di produzione musicale e di spettacolo.
Devo dire peraltro che questo riferimento viene praticato, almeno nelle mie intenzioni, in una prospettiva che in qualche modo solo parzialmente soddisfa l’aspettativa che del melodramma si parli. In realtà l’interrogativo circa il rapporto musica-parola può avere una declinazione segnata da un’interrogazione più radicale di quella che caratterizza il contesto di una riflessione di poetica o di estetica del melodramma; e in qualche modo viene a toccare quella che potremmo dire una sorta di grande sospensione del giudizio, di grande sguardo radicale sulla realtà della musica nel contesto dell’età moderna.
Esiste infatti, e possiamo ricostruirla almeno per sommi capi, per esempi, per campioni, una riflessione che parte dalle scaturigini dell’esperienza romantica e attraversa tutto l’Ottocento e una certa parte del Novecento, sia dell’esperienza musicale sia di quella filosofica, che affida alla musica una gamma di compiti, un’elevatezza di ambizioni che può per molti versi contrastare, addirittura vivere un rapporto di conflitto, con la realtà dell’esperienza musicale concretamente e storicamente prodotta.
Esiste, in quest’epoca, un’immaginazione della musica sullo sfondo della grande problematica spirituale che caratterizza il pensiero filosofico e la riflessione filosofico-storica, nella quale la musica si configura, più che come il dato di un presente, come una sorta di grande miraggio in cui essa, proprio nel tempo in cui si produce la stragrande parte di ciò che noi concepiamo oggi come patrimonio musicale o, almeno, come “grande repertorio”, appare come qualcosa che in realtà deve ancora avvenire e rispetto alla quale la produzione musicale in atto, pure grandissima, appare come il segno di una sorta di esilio della vera musica dalla scena del mondo.
Un esempio, che ci consente di bruciare rapidamente tutta una serie di preliminari, è offerto da un testo che normalmente (non si tratta in questo senso di una citazione molto originale) viene indicato come uno degli incunaboli, uno degli esordi di ciò che si intende per estetica nell’ambito del romanticismo. Anche se bisogna subito avvertire che proprio nel momento alto dell’esperienza romantica, in quegli anni che si avvitano intorno al picco dell’anno 1800 all’esperienza dell’Athenaeum, la nozione di estetica è vissuta con delle tensioni che tendono costantemente a far travalicare l’esperienza artistica in limite di una separata espressione dello spirito tra altre e a farle assumere un ruolo gerarchicamente superiore, un ruolo che in qualche modo contende alla filosofia, alla stessa religione, la funzione di esperienza dominante o di momento sintetico, di luogo di rideterminazione complessiva dell’esperienza culturale.
La parabola del santo ignudo
Intendo riferirmi ad uno scritto che si segnala, pur nella rilevanza dei problemi posti, per un’affabilità poco filosofica: la meravigliosa novella orientale del santo ignudo di Wilhelm Friedrich Wackenroder, che apre la sua seconda e ultima opera, cioè le Fantasie sull’arte per amanti dell’arte. È un rinvio direi quasi obbligato per chi, a qualsivoglia titolo, debba fare riferimento al romanticismo e alla riflessione sulla musica che in questo contesto si elabora.
Infatti si tratta di una invenzione metaforica, di una grande allegoria che tende a ridiventare simbolo (per nominare un problema d’epoca), in cui la musica sta in un rapporto di decisiva tensione con quella che potremmo definire l’immaginazione di un ordine cosmico di cui si auspica l’avvento. E vedrete che un po’ tutta una serie di problemi che riguardano il rapporto musica-parola vi sono già configurati.
La narro brevemente senza ricorrere a dirette citazioni perché qui ciò che conta effettivamente, se mi si passa l’espressione un po’ banale, è la storia e il simbolo che essa stessa tutta complessivamente costituisce.
In una regione orientale, che viene indicata da Wackenroder immediatamente come luogo di una geografia puramente simbolica, vive un gimnosofista (reimmaginato necessariamente da Wackenroder senza grossi sforzi filologici, cioè un santo ignudo, dedito – come si ritiene in una cornice così esotistica debba fare un santo orientale – a una meditazione isolata, monastica e scontrosa). Il santo ignudo vive in una caverna e nelle sue intenzioni vorrebbe dedicarsi esclusivamente alla meditazione.
In realtà, il santo ignudo è tormentato da un rumore che nessun altro sente, un rumore poderoso, implacabile: il rumore di una ruota, il rumore di una grande macchina che insensibilmente, indifferente alla sofferenza che al santo questo procura, macina con assoluta regolarità.
La macchina che produce questo rumore è la ruota del tempo, un tempo che ha tutte le caratteristiche della regolarità quotidiana, di un’implacabile monotonia, di un’assoluta assenza di vibrazione e di modulazione, un rumore che costituisce una sorta di grande metafora di ciò che nel radicalismo della sensibilità romantica si complica in un’unica sostanza.
È il tempo regolare scandito dagli orologi, quegli stessi orologi che nella rivoluzione francese di tanto in tanto vennero presi a sassate o a fucilate, è l’organizzazione della vita per tempo di lavoro e tempi complementari a questo, è quella stessa grande macchina, coerentemente a una metafora che dai suoi esordi moderni lo caratterizza, che è lo Stato col suo apparato di legalità, col suo sistema di coercizioni, con la sua meccanica e razionalistica impersonalità.
Tutto questo si concreta nell’immagine di un rumore che rende l’esistenza del santo insopportabile. Il santo per questo motivo (è un santo un po’ singolare rispetto alle nostre aspettative) è insofferente dell’altrui esistenza, dell’esistenza di coloro che, non sentendo il rumore infernale della macchina, ritengono di potersi dedicare alla vita quando la vita, per chi ascolta il rumore del tempo, è palesemente impossibile; perché la macchina tritura, prima di ogni altra cosa, la possibilità di vivere, riproponendo costantemente nella sua ritmica il presente come un presente senza spessore, in cui la vita può dilatarsi.
Il santo peraltro viene redento (il montaggio della vicenda che Wackenroder narra non è poi in sé ingegnosissimo) da quella che per la nostra sensibilità potrebbe apparire poco più che una cartolina particolarmente curata.
In una notte lunare il santo, uscito dalla caverna, si imbatte in una coppia di innamorati che sono risaliti sul fiume (con una splendida luna, ovviamente) e, di fronte a luna e stelle (cieli stellati di kantiana memoria), cantano un canto amoroso, in cui musica e parole, ovviamente, si fondono perfettamente.
A questo ascolto subentra una metamorfosi che necessariamente – e su questa scia si determineranno molte situazioni nella letteratura e nel teatro musicale romantico – è anche un’apoteosi, perché l’involucro sofferente del santo ignudo si dissolve e al suo posto compare un’essenza angelica che, letteralmente portata dal canto, si libra verso l’alto, redenta ed emancipata.
Il ritmo implacabile e ripetitivo della ruota del tempo, il suo rumore, si è risolto in musica; in altri termini, il tempo-rumore, nella sua algida e asciutta meccanicità, ha ceduto a quella che potremmo dire una sequela concatenata, reciprocamente metaforica, di matrimoni (di matrimoni – beninteso – mistici e cosmici).
L’immagine dei due innamorati fa levitare una musica che è anche un canto e la loro unione consente un’altra unione: quella che congiunge la terra a quella che, nel pensiero “tradizionale”, è la parte superiore della manifestazione, la volta celeste.
Il ritorno del simbolo
Si determina insomma un evento che il romanticismo di questi anni continuerà ad auspicare, a corteggiare, a tentare di cogliere ricorrendo a tutti i cospicui, e tutto sommato mai sufficienti, mezzi della sua immaginazione. L’obiettivo di una grande reinvenzione del simbolico; dove per simbolo, o se vogliamo per reinvenzione o rinascita del simbolico, si intende un riscatto della forza del simbolo dal suo esito allegorico, ovvero un riscatto del simbolo dalla sua riduzione ad allegoria, dalla sua riduzione a ciò che può essere sciolto razionalmente e impiegato come rinvio a dei significati aventi una consistenza al di là della sua forma, al di là della sua veste.
Un ritorno cioè del simbolo come simbolo potente, del simbolo cioè come ciò che non ha un significato se non quello di ciò che diventa colui che interpretandolo si trasforma. Il simbolo in altri termini è come una sorta di grande enigma, potente, il cui destino non è quello di essere spiegato e sostituito con altro, ma quello invece di schiudere una dimensione che esiste soltanto attraverso la sua interpretazione; un simbolo su cui grava l’ambizione romantica di una vera e propria palingenesi, di una grande ri-forma del mondo affidata alla forza dell’interiorità.
Ora, perché partire da qui? Fondamentalmente perché da questo punto parte, o per meglio dire si manifesta, un’immaginazione della musica che ridisloca il fatto musicale rispetto a una serie di precedenti e consolidate gerarchie di valori e di ruoli nell’ambito dell’organizzazione dell’attività artistica.
Perché se la musica poteva in precedenza, al di là dell’altezza delle realizzazioni storiche nei due secoli precedenti, apparire un’arte che, legata al suono e, quindi, legata al tratto effimero dell’esecuzione, praticata da artigiani tutto sommato qualche gradino sotto nella considerazione sociale ai pittori e a maggior ragione ai poeti, poteva non presentarsi come un luogo in cui potesse essere ospitato il momento centrale dell’autocoscienza di una cultura, diviene invece progressivamente una sorta di grande metafora destinata a presentarsi come il momento alto di un progetto culturale, un luogo nel quale lo stesso pensiero sembra trovare la sua rappresentazione più efficace, a configurare un orizzonte nel quale le grandi ambizioni di questo momento storico, la mediazione o il radicale superamento della dicotomia tra artificio culturale e natura, possono trovare una loro soddisfazione.
Ma – e qui viene il senso di questo avvio – questa tendenza che caricherà la musica di una grande responsabilità proprio nel momento stesso in cui affida per molti versi alla stessa filosofia l’obiettivo di andare verso una propria strutturazione nella quale il pensiero prenda l’aspetto di una grande musica (la metafora dominante in quest’epoca è la dimensione di un pensiero musicale capace costantemente di riconquistare il proprio presente a fronte delle stabili, massicce costruzioni architettoniche dei grandi apparati razionalistici), questo stesso miraggio, questa stessa prospettiva introduce il problema di un rapporto estremamente complicato, teso, instabile, percorso dalle pulsioni desideranti, dalle esaltazioni e dai rifiuti più intensi, della musica con la parola.
La vicenda dell’estetica in rapporto alla musica dell’Ottocento vivrà per l’appunto una fenomenologia molto complessa nella quale, soprattutto nei luoghi in cui questa si manifesta nelle forme più radicali, è la musica nel suo complesso ad essere messa in questione.
Cominciamo da un primo riferimento che è esattamente degli anni del testo wackenroderiano che vi ho sommariamente riassunto e di cui ho tentato qualche – dopotutto non ardita – utilizzazione. E ci troviamo, così, probabilmente al cuore di uno dei laboratori romantici più ricchi, in uno di quei testi romantici (questa è un po’ la caratteristica degli anni che vanno verso la fine del Settecento e i primi dell’Ottocento), una di quelle situazioni nei quali sembrano, con uno sforzo che non potrà durare per lungo tempo, voler coesistere le direzioni provenienti dalle più diverse tradizioni e le linee di ricaduta che di lì a pochi anni determineranno schieramenti, orientamenti, contrapposizioni di scenari tra loro immediabili.
La musica delle sfere
È uno di quei testi romantici in cui troviamo la terminologia filosofica (elaborata dal criticismo kantiano, reinventata dal Fichte di quegli anni) coniugata con i giri metaforici, con le immagini, con gli sforzi poetici più arditi; nei quali tutto e il contrario di tutto sembrano coesistere in attesa di una grande svolta culturale, costantemente auspicata e sentita come imminente, nella quale non a caso la musica dovrebbe avere un ruolo decisivo accanto all’altra grande parola d’ordine di questo giro d’anni, la mitologia.
Si tratta dei Frammenti di Novalis. Cito dal frammento 1142 e successivamente dagli altri limitrofi:
«Non ha la musica qualcosa dell’analisi combinatoria e viceversa? Le armonie numeriche, l’acustica, l’aritmetica fanno parte dell’analisi combinatoria. I numeratori sono le vocali matematiche – tutti i numeri sono numeratori.
L’analisi combinatoria porta al fantasticare in numeri e insegna l’arte della composizione dei numeri, il basso continuo matematico. (Pitagora, Leibniz). Il linguaggio è uno strumento musicale di idee. Il poeta, l’oratore e il filosofo suonano e compongono grammaticalmente. Può essere trattata anche poeticamente. Il basso continuo contiene l’algebra musicale e l’analitica musicale. L’analisi combinatoria è l’algebra e analitica critica, e l’arte della composizione musicale sta al basso continuo come l’analisi combinatoria all’analisi semplice.
Certi problemi matematici non si possono risolvere singolarmente ma soltanto in collegamento con altri – da un punto di vista superiore, mediante un’operazione combinatoria».
Poco più avanti vi sarà tutta una serie di frammenti che esplicitano l’idea che fondamentalmente ridotta all’essenza ci viene fornita in forma compendiosa dal frammento 1151:
«La musica da ballo e le canzoni non sono la vera musica. Sono soltanto sottospecie. Sonate, sinfonie, fughe, variazioni: ecco la vera musica».
Volendo appiattire la dichiarazione novalisiana – ma si tratta di appiattire molto mentre l’obiettivo sarebbe se possibile l’opposto – si dovrebbe dire: musica strumentale contro musica vocale. Indubbiamente alla fine delle fini potrebbe proprio sembrare così, e in parte è così per Novalis. Però nel primo brano citato ci troviamo esattamente di fronte a una serie di linee forza che nel testo introducono tutta una serie di complicazioni.
Intanto l’aspetto dominante è questo, per così dire, grande cabalistico di un rapporto tra matematica e musica sotto l’autorità (anzi le auctoritates) di Pitagora, nientemeno, e di Leibniz; sullo sfondo, in altri termini, quelle che quasi potremmo chiamare (così vengono sentite da Novalis, si badi bene, il discorso su Pitagora e Leibniz richiederebbe ovviamente aggiustamenti di altro tipo) due grandi cosmogonie musicali, e ad un tempo stesso musicali e matematiche. L’idea cioè della musica come una sorta di grande matematica di cui si è salvato il valore simbolico, la portata esoterica.
Come si nota, il tema dominante è la relazione che musica e matematica producono con altre dimensioni, senza le quali esse stesse non possono consistere e con le quali esse istituiscono legami che consentono la produzione di una sorta di grande rete cosmica di equivalenze e di corrispondenze.
Quindi musica e matematica come ars combinatoria; ma l’ars combinatoria qui effettivamente compare sotto il segno della grande tradizione cabalistica e più latamente esoterica. Ci troviamo cioè di fronte, nel senso che prende negli scritti di Novalis e in questo periodo romantico, alla prospettiva di una grande magia; magia da non prendersi – beninteso – nella accezione banale di pratica occultistica, ma nel senso dell’affidamento a una dimensione simbolica di una nuova ricerca di potenza.
Una ricerca di potenza che non a caso in questi anni, contro le immagini del potere, contro le immagini dello Stato moderno, fa in qualche modo riaffiorare, non più come grande maestro del dogmatismo filosofico (quello stesso destrutturato da Kant e poi dal giovane Schelling delle “Lettere filosofiche”) ma come nuovo Omero, l’immagine di Spinoza.
Da questo atteggiamento discenderebbe allora l’idea di una musica tutta risolta in matematica e conseguentemente, per mantenere questa equivalenza, tutta affidata in coerenza a una grande tradizione tedesca (su questa scia ci sarà una riscoperta bachiana di lì a qualche tempo), alla tradizione dello strumentale o più ancora, se vogliamo andare a vedere dove punta Novalis, a un altro grande topos dell’immaginazione romantica (si pensi al Keats dell’Ode a un’urna greca) cioè all’idea di una musica quasi senza suono. L’idea cioè di una musica al di là dello stesso strumentale, una musica fatta di puri nessi mentali, una musica che proprio per questo diventa, al di là della prassi esecutiva, la vera musica delle sfere. Quindi ci troveremmo molto distante dalla parola.
La musica e il linguaggio
Però nello stesso tempo ci imbattiamo in passaggi di questo tipo: “Il linguaggio è uno strumento musicale di idee”.
Ecco che immediatamente, sul palinsesto di questa immaginazione apparentemente tutta matematizzante, si innesta (in realtà la cosa non deve sorprendere, ma sulle prime può sovvertire qualche aspettativa), si inserisce (e per chi conosca Novalis immediatamente l’immagine si allarga nella mente) lo spettro di una filosofia del linguaggio.
Perché dire che il linguaggio è uno strumento musicale significa porre un problema destinato, non a caso, a passare dai romantici (con tutta una serie di metamorfosi) ad alcuni momenti alti della speculazione filosofica e filosofico-linguistica novecentesca (penso segnatamente a Walter Benjamin e, per alcuni versi, a Rosenzweig), il problema cioè di una concezione del linguaggio nella quale l’essenza della lingua sia concepita come ciò che è radicalmente altro dal linguaggio, radicalmente altro da un mondo dei significati, ma che nello stesso tempo solo nel linguaggio ha la sua sede: nei contenuti proposti dal linguaggio non si può mai trovare espressa, dichiarata, condensata in contenuti e in significati la verità, ma la verità solo nel linguaggio parla. Tale concezione, non a caso, ha bisogno di immaginare il linguaggio come musica perché ha bisogno di presentarci costantemente l’essenza dell’esperienza linguistica come qualcosa che va al di là della sedimentazione delle sue figure logiche, qualcosa che trova la sua essenza soltanto nel momento in cui la lingua è in atto, qualcosa che comporta che lo stesso pensiero (del filosofo) non possa essere colto nel suo valore di rapporto tra linguaggio e verità come sequenza di passaggi risolti formalisticamente, giacenti nella dottrina, ma debba invece essere concepito per l’appunto come una musica, che è vera soltanto quando viene eseguita, una musica che ha come compito quello di creare il tempo, quello di essere contemporaneamente un ordine eterno ma un ordine eterno che si apre soltanto quando la forza del pensiero riesce a produrre l’evento.
Siamo cioè al cuore del rapporto tra la musica e il simbolo. Questa metafora è destinata a contare moltissimo, sulla scia di ciò che uscirà da questo accumulo iniziale di condensazione metaforica.
La musica presenta contemporaneamente questo grande rischio, rispetto agli edifici del pensiero che possono metaforizzarsi nella forma della macchina o dell’edificio: è transeunte, è effimera, è al limite della sparizione, dell’esalazione. Ma solo essa ha la capacità di dilatare il presente, di uscire da un’analitica del tempo nella quale la dimensione del presente è schiacciata tra i grandi scenari del passato e del futuro, col presente costantemente dileguantesi, mortiferamente nichilista, quella che appunto inquietava il santo ignudo.
Ora in questo tipo di prospettiva il problema della parola, che appare forcluso dal taglio dominante di questa dizione novalisiana, in realtà risorge. Risorge proprio nel momento in cui l’ambizione che promuove la valorizzazione del fatto musicale si apre alla dimensione del simbolo. Ci avviamo quindi all’analisi di questa sequela di matrimoni, come anticipavo, di cui il matrimonio tra parola e musica appare come la suggestione dominante.
Però prima di arrivare a questo, e in parte per arrivarci, una citazione praticamente coeva di quello che per altezza di ingegno filosofico è un po’ il gemello di Novalis nella riflessione estetica di questa fase del romanticismo: Friedrich Schlegel. È il frammento 444 dell’Athenaeum.
Come perle di vetro
«A taluno suol parere strano e ridicolo che i musicisti parlino dei pensieri che sono nelle composizioni loro; e spesso può anche accadere che si avverta ch’essi hanno più pensieri nella loro musica che sopra di essa. Ma chi ha senso per le mirabili affinità di tutte le arti e scienze, non vorrà considerare la cosa dal piatto punto di vista della cosiddetta naturalezza, secondo la quale la musica deve essere soltanto il linguaggio del sentimento, e troverà in sé non impossibile una certa tendenza di tutta la musica puramente strumentale verso la filosofia. Non deve la pura musica strumentale crearsi un testo? E in essa non viene il tema così svolto, confermato, variato e contrastato come l’oggetto della meditazione in una serie di idee filosofiche?»
Si noti innanzitutto come quando compare in questo contesto l’immagine della musica, compare un che di simile al Glassperlenspiel (il gioco delle perle di vetro) di Hesse, una sorta di grande arte che connette l’essenza tra tutte le arti.
Comunque questo passo, per tanti versi affine a quello di Novalis, sviluppa un aspetto destinato a molto successo (a volte anche a degli esiti che hanno una certa volgarità da filosofia della storia degradata; l’idea, in altri termini, di una omologia tra procedimenti logici della filosofia idealistica e caratteristiche compositive fondamentalmente dello stile classico, nel senso di Rosen, inteso come grande classicità viennese).
Il discorso di Schlegel è fondamentalmente che la musica non è soltanto il linguaggio del sentimento, nel senso che non serve soltanto ad esprimere stati d’animo, elementi passionali (musica come ciò che sta nel capitolo “de affectibus”, per dirla con la vexata quaestio sei-settecentesca), la dimensione delle passioni; sarebbe questa la musica che intona il canto, ad esempio la musica dell’opera italiana, la musica legata a testi che non a caso indicano climi emotivi, situazioni psicologiche.
Schlegel dice che la musica non è soltanto questo: la musica è soprattutto ciò verso cui muove il pensiero filosofico. C’è cioè un movimento doppio e convergente della musica verso la filosofia e della filosofia verso la musica; l’incontro è questa capacità della musica e della filosofia, nel loro convergere, di diventare un luogo di trasformazione reciproca di tutte le arti, di tutte le esperienze del pensiero.
In questo senso musica e filosofia si confrontano col grande problema, aperto in questo momento storico, della composizione armonica, della rideterminazione armoniosa del mondo dopo la lacerazione rivoluzionaria, che è lo stesso con cui si confronterà, con mezzi diversi ma uscendo da uno stesso contesto culturale, la grande ambizione hegeliana e idealistica del “sistema”. O, se vogliamo, del sistema come grande forma logica universale, laddove i romantici propongono un’altra via sistematica, paradossale, quella del sistema come frammento; sistema come una somma di piccole cellule nelle quali implode tutto un grande sistema, piccole cellule di discorso nelle quali però intuitivamente tutto l’ordine del mondo è contenuto e che si richiamano l’un l’altra, come direbbe con questi stessi frammenti Schlegel, “musicalmente”, così come tra loro si richiamano musicalmente le stelle nella grande musica celeste, in quella risonanza che molto più tardi Walter Benjamin vorrà spiegare come la risonanza delle idee che coincide col parlare della verità (Benjamin, come si sa, era un determinato e “concentratissimo” critico dei romantici, ma lo era partendo dall’esigenza di salvare ciò che dal suo punto di vista era un’esperienza ambiziosissima ma inibita alla meta).
Quindi anche qui filosofia e musica, che sembrano in realtà sposarsi sul cadavere della parola cantata.
Il coraggio della superficie
A un capo opposto del secolo, e ad un estremo anche di un’esperienza biografica e di creazione, ritroviamo nei frammenti postumi di Nietzsche una battuta che sembra complessivamente ricollocare e rovesciare tutta questa tendenza; ma rovesciarla quasi col gesto di chi rovesciandola voglia estrarne e liberarne gli aspetti più essenziali e che lo fa, in coerenza con la natura di ciò che ispira questo tentativo, puntando non alla profondità ma alla superficie.
È il frammento 10 del quaderno 25, del dicembre ’88-gennaio ’89 (siamo, come si nota, “alle ultime” nietzschiane), un frammento apparentemente esile, che ha però una densità – dal nostro punto di vista almeno – particolarmente conveniente.
«Gli antichi italiani con la profondità e la melanconica dolcezza del sentimento, i musicisti “aristocratici” per eccellenza, nei quali ciò che la voce ha di più alto è rimasto come suono. Il Requiem di Nicola Jommelli (1769), per esempio, l’ho sentito ieri: ah, ciò viene da un mondo diverso da quello di un Requiem di Mozart…».
L’accostamento è un po’ provocatorio, fatto per abbreviare il discorso rendendolo più schematico ma anche più esplicito.
Qui Nietzsche ci propone addirittura una contrapposizione, che può in qualche modo far vibrare le corde dello sdegno, tra Mozart e Jommelli; Jommelli che, come peraltro i cultori della musica in proposito sanno meglio di me, è un musicista altissimo in realtà, anche se la considerazione storiografica non ce l’ha presentato in una luce particolarmente auratica (situazione alla quale ha parzialmente posto rimedio una recente messa in scena scaligera del Fetonte). Ciò nondimeno il paragone stride.
Rileggiamo il frammento. Jommelli è per eccellenza un antico italiano. Antico, si badi bene, in un’accezione molto nietzschiana: l’antico di Nietzsche sfugge a una determinazione epocale, storica, esso è essenzialmente ciò che è così lontano, così remoto da una strutturazione storica del tempo, da essere prossimo al presente.
Il vero antico, in Nietzsche, non è un’epoca particolarmente remota, è ciò che sfugge talmente indietro da fuoriuscire radicalmente dalla rappresentazione storica, quindi è qualcosa che ci è massimamente vicino.
Però per Nietzsche gli antichi (soprattutto quando parla di musicisti) sono anche qualcosa che sta in rapporto stretto con le origini del moderno, diciamo in altri termini con quel Seicento o Settecento unificato, al di là dei problemi di periodizzazione storica, da questa caratteristica: la capacità di cogliere con esattezza e spietatezza le caratteristiche della ragione moderna, e di non fingere sulla loro natura.
Gli antichi musicisti, i maestri della vecchia scuola, che Nietzsche rispettava moltissimo, erano coloro che per rigore intellettuale, per grandezza di stile (e a questo arriveremo dopo, perché ci servirà per spiegare cosa significa qui “aristocratico”), sapevano essere il simmetrico opposto di ciò che perverte il genio wagneriano: sapevano cioè essenzialmente non avere nessuna ambizione di fittizia profondità, non pretendevano di caricare sulle spalle della musica il castello dell’ideale.
Coloro che, in altri termini, sapevano per altezza di stile essere emancipati da qualsiasi enfatica spiritualizzazione; potremmo dire, un po’ semplicemente, coloro che con un colpo d’occhio d’aquila identificavano con esattezza il bordo tagliente del rapporto tra la musica e il mondo, e non puntavano a forme di fittizia conciliazione.
Questi sono, non a caso, musicisti aristocratici; musicisti cioè che sanno essere trasparenti a se stessi, perché questa è la caratteristica del vero aristocratico per Nietzsche. Il vero aristocratico è colui che è pienamente trasparente al sentimento di sé, colui che non fa procedere da altro che da sé, in una ricerca di fondamenti, la propria qualità e il proprio tempo. In questo senso i grandi maestri italiani sono dei grandi aristocratici, proprio perché non hanno paura del rapporto tra la musica e le passioni; sanno cioè praticare, senza esasperazioni intellettualistiche, senza fumisterie filosoficheggianti, la dimensione del rapporto tra la musica e il corpo, così come la dimensione moderna consente loro di fare.
Ci troviamo così di fronte al rapporto tra musica e parola non tanto come parte di una estetica musicale separata ma come snodo di ciò che nietzschianamente può chiamarsi la “genealogia”.
Nietzsche esplicita (in questo senso c’è una radicale metamorfosi rispetto a nuclei essenziali dell’immaginazione romantica), porta ad un livello di particolare radicalizzazione l’ambizione simbolica e l’ambizione di potenza che in qualche modo i romantici caricavano sulla musica; ma lo fa esattamente contestando la premessa che da un certo punto di vista sembra la premessa della parte essenziale dell’esperienza musicale moderna, di quella che anche per noi, dopotutto, appare essere la musica.
La musica che non c’è
Quando, anche in termini di linguaggio comune, parliamo di musica, tendiamo quasi sempre o quasi tutti a parlare di qualcosa che comincia verso la fine del rinascimento e arriva ai nostri giorni (e avviene in Europa).
Nietzsche pensa a qualcosa che rimette radicalmente in questione tutta questa musica, ed è nientemeno che la stessa separatezza della musica come ciò che è affidato al puro ascolto, della musica come ciò che sussiste separatamente nello spazio dell’acustica.
In questo senso, e qui forse chiarisco una delle mie anticipazioni, per Nietzsche la vera musica è una musica che in un certo senso non c’è ancora, è la musica che non è separata dalle parole e non è separata dal corpo; ed è in questo senso una musica che tutta l’esperienza musicale moderna in realtà perde nel momento stesso in cui si costruisce.
La musica si presenta soprattutto, per Nietzsche, come il grande ritmo che pervade e struttura l’esperienza vitale, qualcosa che è già perso nel momento in cui si presenti esclusivamente all’esperienza dell’ascolto. In questo senso appunto Nietzsche parlava di un grande stile, di uno stile cioè capace, nel contesto di una musica che è separata dalla vera grande musica, di trovare i bordi esatti per testimoniare nella distanza dalla musica vera la volontà di non occultarla.
I grandi maestri della musica moderna sono grandi maestri di una poderosa autolimitazione; la loro grandezza, la loro aristocrazia, sta in una sostanziale adeguatezza delle loro ambizioni ai loro mezzi. In esse non opera, come può avvenire in tutto il contesto ottocentesco segnato dal romanticismo, l’“anelito”, la tensione desiderante verso una totalità vissuta sempre come scacco nell’inattingibilità dell’ineffabile; opera invece la capacità di essere pienamente trasparenti alla propria esatta fisionomia ed essere con ciò intrinsecamente musicali nell’accezione più alta.
In questo senso, per Nietzsche, vengono ad avere un’eccezionale dignità tutti i fenomeni di canto, cioè di intonazione musicale della parola; e qui si dà un altro movimento di convergenza (in parte però diverso da quello che abbiamo visto prima) che è quello che va dalla musica verso la parola e d’altra parte dalla parola verso una riconquista, nello spazio stesso della parola, di una dimensione musicale.
Da una parte abbiamo tutta la perlustrazione del grande fallimento (dal punto di vista nietzschiano) wagneriano, ma dall’altra abbiamo ad esempio la particolarissima “antologia” (per così dire) della lingua tedesca, che in qualche modo caratterizza Nietzsche e che trova il suo culmine in un poeta come Heine, celebrato non a caso da Nietzsche per la sua eccezionale capacità di produrre musica, qualità di suoni, all’interno della lingua tedesca, così (sempre dal punto di vista nietzschiano) inospitale nei confronti della superficie suadente e corporeamente seducente del suono.
Ho voluto andare direttamente a questo che può sembrare il capo opposto del percorso in sostanza perché, probabilmente, questo esito nietzschiano consente di mettere in evidenza, facendo come da punto di attrazione, il senso di un lavorìo che nel corso di tutto l’Ottocento vive una sua esistenza difficile rispetto a quello che potremmo dire lo sfondo di una sua sistemazione teorica, lo sfondo di una consapevolezza speculativa che lo giustifichi ma che nello stesso tempo anima una parte cospicua dell’esperienza musicale nei suoi risultati anche più importanti.
Infatti, torniamo ora un po’ indietro: con gli auspici della grande speculazione romantica di cui abbiamo citato due capisaldi, si svilupperà in questo contesto, paradossalmente, una delle ricerche più cospicue e tenaci sul rapporto parola-musica come quella della liederistica e contemporaneamente, nelle sue varie forme europee, quella del melodramma.
Si badi, si potrebbe obiettare che la liederistica da un certo punto di vista vede effettivamente la sua nascita, almeno nella forma che per noi massimamente si associa a questo termine, proprio nello spirare del Settecento; ma che il melodramma ha ben altra storia.
In realtà è anche vero che a quest’altezza cronologica, in un contesto di rivoluzione e in un contesto di enfatiche chiamate del nuovo, così come nel contesto letterario assistiamo alla decomposizione dei sistemi mitologici di tradizione classicistica, così nel contesto musicale ci si avvia al confronto con una pratica dei generi musicali che nel corso di tutto l’Ottocento coinciderà con la loro sistematica messa in crisi.
La liederistica e il melodramma, i luoghi per eccellenza dell’incontro con la parola, saranno non a caso i due luoghi dove per eccellenza si misurerà, nell’intensità di motivazioni, quella che potremmo definire una grande crisi delle forme che alimenta contemporaneamente di grandi riuscite e di grandi scacchi (spesso coincidenti) tutta la grande produzione musicale.
L’Ottocento, per molti versi, è il luogo in cui la produzione musicale tende a crescere sulla difficoltà di trovare assetti, modelli, che si configurino come realmente stabili e “giustificati”.
In questo senso la produzione liederistica viene ad assumere un significato particolarissimo perché essa assume di per sé, per le proprie condizioni di produzione, il problema che, come abbiamo visto, il romanticismo aveva posto nei suoi tagli speculativi e dominanti: il problema di un sistema, inteso come articolazione complessiva della totalità, che però si configuri come realizzato nella forma del frammento, nella forma dell’intuizione singola, continuamente rinascente, ripetuta, nuova.
E contemporaneamente il romanticismo musicale, nella liederistica, pratica anche l’altra grande condizione: il problema del ripristino, nello spazio stesso della parola, di una dimensione di tipo simbolico.
In questo senso la produzione liederistica porta in sé il riflesso di una svolta che la ricerca del simbolo viene a prendere nel corso dell’esperienza romantica più intensa: lo snodo che va dal simbolo al mito.
L’origine della parola
Se il problema era quello di riscattare l’astrattezza, la trasparenza rinsecchita del simbolo divenuto allegoria, del simbolo che l’esperienza dell’Aufklärung (illuminismo) ad un tempo stesso pratica ma rende nei suoi raggiungimenti più alti pleonastico, inutile (si pensi, per fare un esempio fra i tanti, a quello altissimo del Lessing dei «Dialoghi», in cui si chiarisce che tutta la grande tradizione rosacrociana contenuta nella tradizione massonica è di grandissima rilevanza, ma i veri iniziati ne fanno a meno: il simbolo in realtà può essere oltrepassato, può essere abbandonato), la produzione liederistica riapre la problematica del rapporto tra il simbolo e il tempo nella forma della ricostituzione su nuove basi, che sono quelle di una più radicale apertura alle fonti della tradizione (la grande mitologia dell’Oriente), al mito, alla temporalizzazione del simbolo.
In questo senso la liederistica è una continua ricerca di simboli che si risolvono in miti nella incarnazione della musica nella parola.
Questo avviene, come sa chiunque abbia esperienza dell’ascolto della liederistica, attraverso una pluralità di approcci al testo letterario di cui l’elaborazione musicale può essere tentativo di decifrazione nelle motivazioni intime, puro assecondamento del ritmo, perlustrazione in vario modo agnitiva di singole occasioni del testo che aprono ad una invenzione musicale che ne sia in un certo senso l’equivalente; tutta una gamma vastissima di atteggiamenti, nei quali però l’elemento costante e dominante è l’attesa, l’auspicio, in alcuni momenti la sensazione di un’avvenuta realizzazione, di una scoperta della vera musica intrinseca alla parola.
L’idea cioè di una musica che per altezza d’invenzione musicale e per altezza di perizia tecnica fa scaturire dalla parola poetica una vera musica, che senza l’intervento musicale non sarebbe mai effettivamente emersa; in un certo senso un simbolo, capace oltretutto di attraversare come un grande fendente, dal pubblico al privato, tutti i luoghi in cui si dà poi concretamente l’esperienza musicale.
Questo tipo di rapporto con la parola sintomaticamente coinvolge tutti i grandi poeti del romanticismo tedesco e, al di fuori della stessa pratica liederistica, trova (è questo un altro riferimento su cui giocava la costruzione nietzschiana cui prima facevo cenno) una grande condensazione, sia di sforzo teorico sia di pratica musicale, in un evento singolarissimo e di eccezionali proporzioni com’è il teatro musicale wagneriano (e la riflessione che in sede teorica lo accompagna), nel quale giunge forse a una delle sue declinazioni più radicali quell’elemento che nella pratica liederistica, così come l’ho sino adesso sinteticamente descritta, rappresentava una sorta di prassi visibile, non bisognosa forse di ulteriori declaratorie teoriche: il rapporto cioè tra la musica e quella che potremmo definire, recuperando un termine reinventato novecentescamente, una etimologia del linguaggio.
Ciò che nel contesto della lingua tedesca effettivamente è proprio la proiezione, l’espansione, lo sviluppo del grande mito dell’autoctonia della lingua tedesca; il mito cioè di una lingua tedesca che, unica lingua assieme al greco, ha un rapporto originario, non mediato, con le fonti del senso, che non è, contrariamente per intenderci alle lingue neolatine, una lingua derivata, una lingua in cui il rapporto con le grandi motivazioni che devono operare nella lingua è mediato e quindi perduto.
Non a caso probabilmente proprio nell’opera wagneriana e nella riflessione estetologica corrispondente troviamo uno dei tentativi più arditi di esplicitazione del senso romantico del rapporto musica-poesia, quello che trova il suo punto di coagulo nella teoria della rima.
La poetica, che coinvolge Wagner come musicista e come autore dei propri testi, e l’estetica wagneriana prevedono come orizzonte della pratica poetico-musicale l’opposizione tra Endreim, ovverosia la rima in fine di parola (che è quella che in questa immaginazione caratterizza la produzione poetica neolatina), dove la musicalità di un testo è legata esclusivamente al gioco fonico; e dall’altra parte lo Stabreim, che potremmo definire una rima interna, ma che in realtà per Wagner è da intendersi come quel richiamo sonoro che lega tra loro le radici delle parole e che quindi è contemporaneamente un gioco di consonanze e di assonanze ma anche, immediatamente, un incontro e una connessione di nuclei semantici.
Il grande miraggio (dal punto di vista nietzschiano solo miraggio, solo stregoneria teatrale) dell’ipotesi estetica wagneriana è quello della piena realizzazione, di un riscatto simbolico, esoterico e di tradizione, della parola; non più, in questo senso, una parola che si sovrappone alla musica o una musica che investe e strumentalizza la parola, ma una musica che altro non fa che rendere udibile la grande oscurità che è l’anima del linguaggio, in questo senso ponendo l’enfasi più poderosa su quello che è il grande miraggio romantico, l’espressività.
Paradossalmente il pensiero nietzschiano rovescia (lo si è visto in quel breve frammento su Jommelli) quest’ambizione dissolvendo il grande fantasma della profondità, sostituendovi quello leggero della superficie, proponendoci l’immagine di un canto pienamente espressivo in una forma che è assolutamente priva di velleità di profondità e in un certo senso, dal punto di vista dell’aspettativa romantica, è meramente sentimentale: il canto degli italiani, che avviene su strofette leggere, senza nessuna pretesa di spessori concettuali legati al testo e che proprio per questo ha con la dimensione delle passioni un rapporto trasparente e onesto che il grande tentativo di afferramento proposto nella coincidenza parola-musica wagneriana non riesce a realizzare se non come sostitutivo teatrale di un’effettiva unione.
La grande ambizione romantica dell’espressività è da ritenersi decisamente sconfitta nel momento in cui una critica filosofica (severa come poteva essere agli esordi del secolo quella hegeliana che sotto il profilo della forza raziocinante ha nei confronti del romanticismo una vittoria sempre immediata), o il cedere del romanticismo a un’analisi delle sue motivazioni che radicalmente le trascende (come quella nietzschiana), tolgono al miraggio dell’espressività ogni legalità, ogni pronunziabilità nel contesto novecentesco? Ovverosia, come si sviluppa a questo punto il rapporto parola-musica, dopo che la grande vicenda liederistica sembra conclusa, dopo che il melodramma ha sperimentato sino in fondo la sua capacità di essere, nelle sue realizzazioni più importanti, la crisi di se stesso?
In un certo senso lo spunto nietzschiano che proponevo ci suggerisce una ipotesi che il Novecento pratica: quella di ritenere che in realtà l’ambizione dell’espressività, l’ambizione di una parola che abbia in sé la propria musica, può sopravvivere e anzi affermarsi a patto di metamorfosarsi radicalmente, di non presentarsi più nella forma della pretesa di espressività ma sappia invece presentarsi come consapevolezza dell’infinita, intrinseca distanza tra il linguaggio e il mondo dei significati.
A patto cioè che quella ricerca di verità, di concretezza, che nei grandi incunaboli romantici diventava (anche politicamente) una poderosa ricerca di realismo (la grande ambizione del romanticismo schlegeliano-novalisiano di quegli anni è quella di fare della nuova mitologia il complemento realistico dell’idealismo, la vera filosofia della rivoluzione), sia un recupero di quest’intenzione profonda ma a partire non tanto dal mondo dei significati, dei contenuti, dei modi del mondo vero, di ciò che il linguaggio ci dice, quanto dal ri-portarla nella posizione sua più vera che è quella di una verità parlante nel linguaggio. Quindi non nel teatro dei contenuti ma al cuore stesso della rappresentazione; non quindi nel tempo precipitato, sedimentato, passato del rappresentato, ma nel tempo presente; un tempo presente di cui si ripropone il problema della dilatazione.
La vicenda novecentesca nei suoi momenti alti sarà quella caratterizzata dal percorrimento della distanza tra la parola e il senso come distanza in cui massimamente interviene l’esperienza musicale.
In questo senso non è un caso che il rapporto tra parola e musica nel contesto novecentesco divenga di volta in volta prosecuzione singolarmente ironica, e attraverso l’ironia rilegittimata, delle modalità ottocentesche, attraverso una grande apertura alla riflessione tarda, e in questo senso decadente, sulla contemporaneità possibile nel gioco della creazione degli stili e quindi con grandi forme di ibridismo (la collaborazione Strauss-Hofmannsthal richiederebbe una consistente considerazione per suo conto, come l’esempio tipico e più alto di consapevolezza della assoluta passatezza e irrecuperabilità delle strategie romantiche) che nello stesso tempo tende a divenire reinvenzione su altre basi di tutte le loro motivazioni e di tutte le loro ambizioni.
Oppure, a un capo completamente opposto, la determinazione di un rapporto tra testo e musica che passi attraverso la frantumazione dei testi, attraverso la liquidazione di qualsiasi accordo espressivistico, di qualsiasi ambizione di canto in cui la musica intoni una filigrana psicologica, in declinazioni che vanno da quello che è il rapporto parola-musica nell’esperienza della scuola di Vienna, che prevede una gamma molto articolata in questo tentativo (si pensi soltanto alla grande tensione neoromantica che caratterizza la produzione operistica di Berg); o ancora al gioco di silhouettes musicali stravinskiano, dove il rapporto musica-parola è continuamente citato, mirabilmente rifatto nella ripresa dei suoi momenti storicamente più felici e più riusciti, e nello stesso tempo parodiato come unica possibilità di sua rilegittimazione; per venire sino a creazioni recenti, dove il testo viene portato al puro indistinto, puro materiale, magari di altissima provenienza letteraria, destinato a essere frammentato, triturato e gettato tra gli altri materiali sonori della produzione musicale; da una parte sperimentando così l’insufficienza di una musica che l’intoni per la musica intrinseca di questi testi, e nello stesso tempo accettando la complicazione tra l’ascolto come dato acustico e la contemporanea immaginazione di un percorso di pensiero che, facendosi carico anche di tutto il suo intellettualismo, si dichiara come parte dello stesso prodotto musicale.
Musica, per intenderci, che è nello stesso tempo esplorazione delle possibilità più avanzate del suono, ma è anche costantemente, programmaticamente, sempre una lettera di poetica, sempre un momento di teoresi musicale, sempre un complesso di esplicite motivazioni che fanno in qualche modo parte della partitura, e che si fanno carico, anche dolorosamente, del fatto che la musica non possa andar da sola.
Si pensi, pars pro toto (e semplicemente perché è un caso particolarmente noto), al recente Prometeo di Nono, un testo che volontariamente si presenta come qualcosa che dev’essere visto in un teatro particolare allestito allo scopo, dopo aver letto due saggi di Massimo Cacciari e una serie di locandine; e questo del tutto seriamente, dove i saggi, le dichiarazioni d’intenti, l’elenco dei testi usati non sono banalmente il contorno colto e serioso dell’esperienza musicale, ma ne fanno intrinsecamente parte; istituendo con questo una rete di nessi intellettuali che fanno parte ci ciò che chiamiamo musica e che per ciò stesso è qualcosa che va anche al di là di ciò che tradizionalmente ci aspettiamo dalla musica.
Quale rapporto tra musica e pensiero?
In questo senso, su un piano diverso ma totalmente complementare, assistiamo nel contesto della riflessione filosofica a una singolare esasperazione, su basi diverse, di quella tendenza della filosofia a concepire il pensiero in forme musicali, che avevamo già visto pronunziarsi nel romanticismo e che qui ritorna in forme diverse.
Qui il problema è quello, come ho in parte anticipato, di riuscire a concepire l’esperienza filosofica come ulteriore rispetto al suo assetto logico. È ciò che in qualche modo compare in tutte quelle esperienze filosofiche che pongono al loro centro una dimensione di tipo narrativo; beninteso, dove per narrativa non s’intende che costoro, in luogo di far filosofia, ci raccontino delle storie, ma che invece intendano come essenziale del loro esercizio filosofico il fatto che questo abbia una temporalità intrinseca che va al di là di una precipitazione logicamente sinottica dei passaggi che lo compongono.
Una filosofia che diventa una scrittura pentagrammatica da concepirsi come uno spartito lungo il quale si deve non soltanto leggere da sinistra verso destra ma dall’alto in basso, e in cui i temi ritornano e si intrecciano in un tempo che non è il mero tempo-sequenza dei passaggi ma è il riformarsi della totalità di questo pensiero in un rapporto in cui compaiano contemporaneamente l’atemporalità, l’acronicità e l’atopicità (l’assenza di spazio e di tempo) che caratterizzano nella sua purezza il pensiero, e la temporalità che contemporaneamente caratterizza inesorabilmente le parole senza le quali il pensiero non consiste.
In questo senso è forse singolare, è forse un segno dei tempi, il fatto che se momenti del pensiero filosofico aprono massimamente alla propria sostanza, alla propria immagine di sé, che al minimo grado di fraintendimento sembra configurarsi come musica, nello stesso tempo la musica sembri sempre più come fuoruscire, in un gesto che sembra contemporaneamente di sparizione e di trionfo, dal teatro in cui per alcuni secoli la si è ascoltata; un effetto che, nell’ordine del nostro contemporaneo, è singolare, di una musica che si riesce sempre meno, come musica prodotta oggi, ad ascoltare nelle sale di concerto o nei teatri e che, in una tensione tra il sublime e l’abietto, pervade però tutta la nostra esistenza; una musica esplosa che, per questo effetto, ci sembra sempre essere a un passo dal divenire dominante o dallo sparire.
Probabilmente rispetto a questo si ripropongono, in tutta una serie di dimensioni anche dell’esperienza quotidiana, i rapporti tra la parola e il fatto che nella nostra stessa esperienza di rapporto, di conoscenza, di noi stessi, cerchiamo fondamentalmente nella parola qualcosa che va al di là di una rete, seppur raffinata, di significati, e cerchiamo fondamentalmente una musica.
Di questo tipo di esigenza il pensiero romantico si era fatto alfiere, con tutte le cadute di qualità concettuale che forse comportava un intento del genere, anche con una sua perdurante capacità di riproporre un interrogativo e di passarlo ad armature logiche più potenti, ma bisognose forse di dimostrare la propria potenza non solo nella rimozione di alcune evidenze che una tematica come quella parola-musica, nel corso dello scorso secolo, ha costantemente riproposto.