Riverberi. In margine a Palamas

 

 

Pubblichiamo l’intervento Riverberi. In margine a Palamas, uscito nella rivista “Arché”, 15, 2004, pp. 92-97.

La forma spirituale testimoniata dal pensiero di Gregorio Palamas appare nello scenario culturale a noi più familiare come quella di uno straniero che si rivela paradossalmente anche nostro consanguineo. Rinunciando qui ad un confronto con questioni più direttamente promananti dall’opera – ciò che non

sarebbe alla nostra portata –, più modestamente ci interesserebbe provare a descrivere, nel breve spazio di queste pagine, alcuni dei percorsi attraverso cui si può muovere un’attenzione oggi per Palamas, capace di interferire con le linee stesse del nostro orizzonte d’attesa.

Perché Ettore Perrella si facesse carico della fatica, per molti versi immane, di tradurre la mole dei testi di Palamas e perché molti interlocutori lo incoraggiassero a farlo, doveva evidentemente sussistere una qualche aspettativa nei confronti di simile parola; il che induce a congetturare che esista, in un complesso di congiunture del nostro attuale operare, una rete di spazi attraverso i quali si determina quello che potremmo chiamare un risucchio che porta in primo piano quanto per molto tempo ha potuto stare in una condizione di quasi pacifico nascondimento. In altri termini tendo a dire, anche se l’affermazione può sembrare molto ingenua e quindi andrà complicata, che se adesso ci accorgiamo di Palamas probabilmente è per qualcosa di diverso da un’operazione classicamente accademica. Certo credo che non si tratti unicamente di accendere un’onesta lampada da tavolo in prossimità di una porzione usualmente poco illuminata della letteratura in lingua greca. Oso pensare che ciò che a noi s’impone sia il sentore – forse in alcuni addirittura la convinzione – che i modi della parola in Palamas possano contribuire a riconoscere dimensioni che, nella compagine della nostra riflessione attuale, ci si presentano altrimenti con il rischio dell’afasia, di un atto mancato o nella forma classicamente analitica del disagio o, infine, del sintomo, con tutti quegli aspetti che, in una formazione compromissoria com’è appunto il sintomo, chiamano alla replica attiva dell’interpretazione. E, a chi abbia letto l’introduzione appassionata ed appassionante di Perrella al volume, risulta abbastanza evidente che il ripercorrimento del pensiero di questo autore coincida per lui con il manifestarsi di una parola capace di intercettare un insieme di domande che per molti aspetti già preesistono alla lettura di Palamas e che al contatto con la lettura dei suoi testi si incendiano dell’aspettativa di un qualcosa di simile a una risposta, o quantomeno di un’ulteriore e più ricca formulazione.

Si potrebbe dunque affermare che Palamas ci attrae perché abbiamo la sensazione che, all’interno del suo pensiero e del rapporto che questo ha con la lingua, vi siano le tracce di un modo che permetta di parlare di cose e situazioni di cui altrimenti avremmo difficoltà a dire e che questo abbia un rapporto con il venir meno della forza sistematica con cui si sono determinati e sono rimasti efficaci fino ad oggi alcuni tagli, alcune mutilazioni, alcune esclusioni di campo che hanno prevalso nel costituire l’immagine della vicenda occidentale, all’interno della quale pure altri modi hanno potuto agire, anche se sotto traccia, attraverso una somma di eventi individuali, attraverso la dimensione di tradizioni affidate ad un complesso esoterismo, piuttosto che sul piano di quelle che potremmo definire le istituzioni della nostra cultura.

Io non credo che ciò che noi avvertiamo come il timbro spirituale più proprio della meditazione di Gregorio Palamas sia assente nella tradizione del pensiero occidentale e nell’esperienza di vita dell’Occidente; avverto però che gli elementi essenziali dello stile intellettuale di Palamas coincidono anche con quanto, pur presente nella tradizione dell’Occidente, non diventa convenzione culturalmente strutturante le nostre istituzioni e il nostro prevalente modo di intendere la razionalità[1].

Ciò che di un pensiero filosofico o di un’esperienza teologica non precipita nella forma della semplice dottrina scolasticamente tramandabile è forse la sua parte più nobile e più vitale. È anche vero che questo rendersi indisponibile a tradursi in un sistema di questioni per la tradizione d’Occidente “normale”, indica il proprio di una grande divisione, in ragione della quale si può ritenere che Barlaam faccia la parte, a fronte di Palamas, di una sorta di rappresentante della cultura occidentale che si assuma il compito di anticipare tutti i no che le nostre istituzioni religiose e culturali, nel loro immaginarsi come tali, dovrebbero contrapporre a quanto Palamas potrebbe dirci. Anche se nella vita delle sue istituzioni, nell’esperienza storica di questi secoli, l’Occidente è ricco di consonanze con la parola che Palamas saprebbe rivolgerci, esse non diventano parte di un paesaggio consaputo e debbono ogni volta essere riesperite e reinventate nell’originalità di un percorso singolare. Questo non va considerato un mero caso: dicendolo con molto azzardo e volontariamente distanziandosi da ogni terminologia palamassiana, uno dei luoghi in cui il nostro pensiero incontra Palamas è la crescente insoddisfazione per la figura dell’individuo, là dove la nostra preoccupazione prenda la forma di una cura della singolarità. Che la forma dell’individuo, come lo abbiamo conosciuto modernamente, sia qualcosa che riesca a rendere ragione di ciò che ci preoccupa quando pensiamo un evento singolo ed una singolarità, è cosa che progressivamente ci convince sempre di meno; è la natura spersonalizzante, che caratterizza qualsiasi forma di individualismo[2], che va a consonare con quell’esperienza, che la psicoanalisi in molti casi riesce a comunicare, di come sia difficile pronunciare l’espressione soggetto, in una forma che non sia controfinalistica rispetto alla scoperta freudiana, che non concepisca cioè il soggetto come un che di immobile, di compiutamente strutturato, fisso, in attesa di essere adeguatamente studiato da un’anatomia della psiche. Se c’è qualcosa che la psicoanalisi dà di irrinunciabile all’esperienza spirituale contemporanea è il senso della intermittenza lampeggiante di un soggetto che c’è quando accade nel tempo presente.

Oggigiorno abbiamo una terribile difficoltà a riconoscere il nostro presente, perché il presente del nostro accadere, il presente in cui effettivamente viviamo, sembra sequestrato dalle forme della cronaca, dalla sua riduzione al tempo che giornalisticamente, mediaticamente si è convenuto essere il tempo in cui viviamo. È evidente in questo senso l’importanza di un pensiero capace di essere inattuale, dove l’inattualità rappresenta, mi si permetta l’espressione, il “forcipe” che dilata il tempo del nostro presente cavandolo a un continuum temporale che costantemente ce lo sequestra. Ma allora il tempo di questo presente in cui noi fondamentalmente accadiamo non è il tempo dell’individualità, bensì quello della nostra singolarità.

Distinguere dunque individualità da singolarità: andando a fondo dell’individuo, andando alla ricerca del suo nucleo – Freud direbbe: al «nocciolo del nostro essere» – o si arriva a delle orride fantasie, alla finzione di aver trovato il cuore dell’uomo, oppure si scopre che al cuore, al centro, non c’è nulla, perché a nulla si giunge per un processo di mero toglimento e che in realtà ciò che stiamo cercando nell’individuo è qualcosa di ulteriore all’individuo stesso, che non può essere in alcun modo trovato identificandone la realtà con qualche sua parte. Si badi bene, non perché si trovi da una qualche altra parte nello spazio in cui l’individuo accade, ma perché non sta nella posizione di ciò che può costituire un mero contenuto di conoscenza. Qui credo s’innesti uno degli aspetti che hanno suggerito a Perrella di dialogare con Palamas: c’è qualcosa che promuove l’impresa della conoscenza e questo qualcosa non ha le caratteristiche del mero inconoscibile e tantomeno di una qualche benefica ignoranza, ma è ciò che nella conoscenza si colloca non nella forma dell’oggetto. Mi torna con ciò alla mente la parola di un grandissimo mistico e poeta mussulmano, presumibilmente segnato dalla trasmissione di elementi cristiano-siriaci, il quale in un suo verso famoso diceva che solo i miscredenti lodano Dio lodando il creato, i veri credenti lodano Dio attraverso il suo creare[3]. Ciò che mi sembra calamiti il nostro pensiero verso un ascolto di Palamas è probabilmente quanto si riassume, anche nel tentativo di sintesi proposto da Perrella, nella tematica degli atti divini, come derivanti speculativamente dalla configurazione triadica. Altro aspetto non del tutto nuovo all’orizzonte occidentale, ma talora eclissato, è che non c’è contrasto tra mistica ed elaborazione speculativa: troppo spesso nella tradizione occidentale si è creduto che la mistica fosse un luogo in cui ci si esonera dal destino della ragione. Pensiamo a santa Teresa, la quale era solita lamentarsi di non avere “ali teologiche” per rivolgersi verso l’alto, essendo donna, eppure ci ha sempre lasciato il sospetto che si trattasse di un espediente per “non pagare il dazio” di una verifica teologica particolarmente ferrea da parte di interlocutori poco dialogici come potevano essere, nonostante il loro indubbio acume intellettuale, gli inquisitori di Spagna.

Attraverso Palamas troviamo una questione che ci consente di uscire da quest’equivoco: il problema del conoscere non sta dalla parte del conosciuto, ma dalla parte di ciò che fa conoscere; in un certo senso, per far riferimento ad un altro ordine di riflessioni occidentale, ciò congeda quel tanto di romantico Streben con cui spesso si è avvertito il problema dell’ineffabilità. Leggendo Palamas si ha la sensazione di mettersi in contatto con una sorta di felicissimo incontro d’ingegni di diverse epoche, non perché Palamas manchi di personalità, di singolarità di pensatore, ma perché è come se fosse una specie di convegno polifonico della tradizione ortodossa a parlare attraverso un resoconto eccezionalmente vivace. Ciò che muove autorevolmente verso di noi dalle pagine di Palamas è la capacità di emancipare l’ineffabile e l’invisibile da un doloroso nascondimento. In Palamas non ci si trova di fronte ad un Dio che celandosi si sottrae alla visione. Abbiamo piuttosto un Dio che si sottrae alla condizione di ciò che niccianamente ne determina la morte: quella di un Dio che sta dietro, come un ente nascosto. In Dio nulla è nascosto. Toglierlo quindi dal suo stato di – avrebbe detto Meister Eckhart – «Dio delle creature», significa anche toglierlo dalla condizione per cui è possibile affermare che «Dio è morto». In Palamas ci si ripropone il rapporto con un Dio che si situa al di là di quanto consente di immaginarne la morte perché si sottrae anche a quella condizione di contenuto di una rappresentazione nella quale esso è già morto. Se ciò introduce alla difficile sperimentazione di un pensiero dell’increato, oseremo allora dire che il problema della diffrazione tra singolarità ed individualità è forse anche legato all’esigenza di riuscire a non concepirci come creature.

Simile asserto, che potrebbe sembrare addirittura protervo, va in realtà accolto come una considerazione molto umile: esortare a non concepirci come creature non ha a che vedere con la pretesa, di cui scriveva Nietzsche, di occuparsi – dopo aver eliminato Dio e sostituitavi la propria immagine – di un mondo ancora concepito come creato da Dio (un Dio umanizzato e antromorfico e non più bisognoso di altri nomi). Si pensa invece ad un increato, che emancipi Dio dalla condizione troppo umana di creatore (come colui che sta gerarchicamente nella condizione di una causa senza ritorno)[4].

Di fronte a Palamas avvertiamo quanto ci può indurre a riconsiderare un pensiero dell’increato che richiede necessariamente delle conseguenze: in lui come nella tradizione che lo riguarda ritroviamo una parola ch’è ad un tempo quella del mistico e del poeta, ed è un aspetto interessante da un punto di vista filosofico, perché questi due campi non chiedono alla filosofia di essere spiegati, bensì di muoversi all’altezza della forza di verità che essi hanno saputo offrire. In altri termini essi chiedono che l’organizzazione del nostro pensiero sappia non mentire su ciò che in altro modo la poesia o l’esperienza mistica hanno reso evidente[5].

Negli scorsi giorni, mentre tentavo di riflettere sulle troppe cose che si affollavano nella mente nel tentare di costruire un discorso ordinato a proposito di Palamas, si è verificata una di quelle coincidenze che in fondo sono di ogni giorno, ovvero stavo leggendo per le mie più quotidiane esigenze didattiche un saggio di Pavel Florenskij (che indubbiamente è figura nel Novecento dialogante in modo significativo con una tradizione di cui Palamas è uno dei punti di condensazione più alti), che s’intitola Il valore magico della parola. Se ne vorrebbe trarre, come spunto per una conclusione, in particolare un brano, che si presenta come una sorta di criptografia di passaggi palamassiani:

 

Siamo abituati a vedere manifestarsi, nella parola il significato [smysl], e facciamo bene a identificarla con il significato. Ma spesso dimentichiamo che, oltre a questo, essa è proprio la manifestazione [javlenii] del significato, per cui insieme alla suddetta identificazione ne è senz’altro possibile un’altra, quella di parola e manifestazione. La parola è nello stesso modo in noi e fuori di noi e, se è giusto vedere nella parola un avvenimento della nostra vita interiore, non dobbiamo tuttavia dimenticare che nello stesso tempo si è già sottratta al nostro potere e che si trova sciolta dalla nostra volontà nella natura esterna. Finché noi disponiamo liberamente della parola, la parola non è ancora, quando si manifesta noi non la possediamo più. «La parola è come un passero, lasciala libera e non la prenderai mai più», dice la saggezza popolare. Ma questo istante cogente della parola viene dimenticato quasi subito, specialmente dalle persone che sono di casa nella scienza, malgrado il popolo complessivamente non lo dimentichi mai. Ma se si considera la forza e il potere della parola, una tale dimenticanza non rimane impunita e non conduce soltanto ad errori teoretici, ma anche a mancanze sociali e personali che in certi casi non possono che essere definite un crimine.[6]

 

Nel testo di Florenskij è indicato un passaggio catastrofico: il passaggio dalla parola al significante e la riduzione di un atto ad un oggetto prodotto (o, si potrebbe dire, la riduzione dello sguardo al contenuto della visione). Vi è un complesso di operazioni che cancellano la temporalità concreta dell’evento del vedere, del dire e del fare nella rappresentazione di un prodotto indifferente al tempo di questo prodursi: tempo che, si badi bene, non corrisponde soltanto al momento del prodursi storico di un’opera in una certa epoca, ma è il tempo della nostra lettura, il tempo del suo passare attraverso di noi e del legarsi suo ad una nostra elaborazione, che non si esaurisce nel produrre sapere. Allora, se è così come Florenskij auspicava a fronte di una situazione di vita nella quale la potenza riduttrice dell’atto ad oggetto, del conoscente al conosciuto e dello sguardo alla pura visione aveva un aspetto particolarmente incombente, si tratta di rafforzare percorsi della ragione che possano, non per una attenuazione del rigore, ma per un suo innalzamento, non soggiacere a questa sorta di esonero dall’evidenza. In tal senso quello di Palamas appare un pensiero dell’increato, che restituisce all’evento singolo, al di fuori di riduzioni mitologiche, la caratteristica dell’infinità e dell’eternità che gli è propria e che, al di là di qualsiasi divinizzazione antropomorfica, ne rappresenta in un certo senso la vera relazione con il divino, l’unificazione, che consiste non nel ridurre più cose ad uno, ma nel far sì che uno sia uno, che ciascuno sia uno e lo sia eternamente, in quella eternità che siamo soliti scongiurare nella paura dell’impermanenza e dell’effimero.

 

NOTE

[1]Esistono molte dimensioni, anche dei luoghi più classici del pensiero occidentale, che possono rendere palese la non inconsapevolezza di ciò che noi troviamo in Palamas, ma sarebbe difficile dimostrare invece che queste emergenze vadano anche dalla parte di ciò che di quelle forme di pensiero può precipitare in una dottrina.

[2]Tanto più ossessiva quanto più noi in realtà constatiamo che ogni celebrazione dei meriti dell’individualismo fa paradossalmente parte di fenomeni di massificazione e di comportamento stereotipo.

[3]Gialâl ad-Dîn Rûmî, Poesie esoteriche, introduzione, traduzione e note di A. Bausani, Rizzoli, Milano 1980, p. 23.

[4]Questo è un argomento che tocca la sensibilità anche di Ettore Perrella, altrimenti egli non cercherebbe con tanto slancio, parlando dell’aspetto triadico, di ricordarci, al di là di quanto non sia immediatamente nella lettera di Palamas, che nessuno è padre se non ha un figlio e che quindi, nel momento in cui il figlio è figlio del padre, c’è un aspetto di reciprocità che non ha nulla a che fare con una curva circolare esterna della processione come avverrebbe invece nel caso delle lamentate, secondo Palamàs, realizzazioni cattoliche.

[5]In realtà rilevanza filosofica non è da attribuire sempre e solo a ciò che ha linguisticamente e logicamente struttura di discorso filosofico; la rilevanza filosofica probabilmente consiste, più che nel rappresentare un pensato, nel dare a pensare o nel supporre che in qualche modo si pensi. Allora mi sembra che si possa cogliere una rilevanza filosofica in Palamàs, che non è cosa che poi distingua il problema nell’analisi dei suoi testi da ciò che può essere ricondotto ad un complesso di forme linguistico/concettuali di tipo filosofico. Epperò anche in questo caso vale un problema più generale che complica la distinzione classicamente comoda tra storia della filosofia e speculazione filosofica, perché, probabilmente, nel momento in cui noi registriamo un complesso di presenze all’interno di un testo, possiamo ricavarne o la sua dipendenza da quella tradizione culturale o riconoscere che all’interno del testo quella stessa tradizione, attraverso i suoi portati, viene in un certo senso messa in questione, per cui credo si possa arrivare al paradosso di radicali opposizioni che si formano attraverso strettissime vicinanze; e viene in mente in proposito la coppia dei fratelli/nemici (p. e. neoplatonici e gnostici) sempre così lontani e così vicini, che sono diversissimi, ma che sembrano avere un feroce bisogno l’uno dell’altro per essere ciascuno ciò che è.

[6]P. Florenskij, Il valore magico della parola, traduzione e cura di G. Lingua, Medusa, Milano 2003, p. 51.