Saggio: Il sintomo immigrazione

 

Pubblichiamo l’articolo Il sintomo immigrazione del Prof. Brandalise uscito in “Economia e società regionale”, n. 112 (1) 2011 – La finanza locale ai tempi del federalismo, pp. 85-91.

 

Che i fenomeni migratori nella consistenza e nella forma assunta nel contesto europeo e italiano negli ultimi decenni annunzino e in parte già contribuiscano a realizzare una svolta epocale, è cosa sulla quale è difficile oramai non registrare un vasto consenso. Comunque è più che giustificato che il gruppo che opera nel Laboratorio di ricerca sull’immigrazione e le trasformazioni sociali dell’Università Ca’ Foscari di Venezia introduca con una nota dal titolo “Una svolta epocale” questo insieme di saggi, che contribuiscono in misura significativa a portare a maturi sviluppi una tradizione vitale quanto consolidata di sociologia delle migrazioni.

Il tema del rapporto tra vecchie e nuove diseguaglianze in Italia viene proiettato sulla fenomenologia della presenza migrante nel nostro Paese, e quindi mirato a ricostruire la complessa stratigrafia di funzioni nella quale la realtà dei migranti viene scomposta e ricomposta dentro l’insieme di processi che stanno trasformando spesso radicalmente la configurazione sociale, politica, istituzionale e culturale del nostro Paese. In tale proiezione, il tema viene sviluppato sino ad esiti che consentono un’opportuna e tendenzialmente salutare destrutturazione di una parte cospicua degli stereotipi che hanno fissato fino ad oggi le linee portanti del senso comune sul tema immigrazione e fatto da base alle diverse retoriche che hanno tentato di trarre dal fenomeno stesso un’utilità quasi mai compatibile con una sua apprezzabile conoscenza.

Proprio per questo ci sembra non ingiustificato tentare di approfondire la natura di tale “svolta epocale” tentando di evidenziare quello che potremmo chiamare l’articolato delle sue localizzazioni.

Seguire la traccia del migrante implica non lasciare che essa sparisca per effetto del filtro esercitato da categorie interpretative che agiscano cancellando l’evidenza della rete di interazioni che la traccia stessa irraggia in ogni punto del suo svolgimento verso i più differenti contesti. Uno degli effetti più evidenti di un percorso di ricerca di questo tipo consiste nel far saltare quelle rappresentazioni che proiettano l’immigrazione sullo sfondo fittizio e al tempo stesso opaco, ma dato per noto e per sicuro, della realtà delle cosiddette società d’accoglienza.

Si tratta di un effetto ottico per cui l’immigrazione appare sempre irrompere come un’emergenza, ad un tempo acuta e interminabile, nel quadro di una società che si suppone stabile, tendenzialmente conciliata con se stessa, dotata di una sicura identità culturale, di fatto difficile da definire ma miracolosamente resa evidente per effetto di contrasto con l’eterogeneità, altrettanto mal definibile, ma perentoriamente presupposta come altra e incompatibile, di chi giunge da fuori. In una parola, una società integra e quindi destinata a pretendere che i corpi estranei si “integrino”, ovvero estinguano la loro diversità, senza che questo possa mai adeguatamente avvenire.

A ben vedere, è la matrice logica di quell’atteggiamento che si riproduce nella legislazione come nell’implementazione amministrativa e più in generale come complesso di resistenza operante in comportamenti socialmente diffusi, per cui l’immigrazione viene ritenuta contemporaneamente: non evitabile in toto, parzialmente necessaria, tendenzialmente deprecabile e pericolosa e quindi bisognosa di essere contenuta da sistemi di rallentamento dei suoi effetti complessivi, da comprimersi per quanto possibile nell’alveo delle sue funzioni indiscutibilmente utili (clandestinità compresa, lamentata ma in molti casi indispensabile per un vantaggioso sfruttamento del fenomeno), in ogni caso da distanziarsi da esiti che affiorino sul terreno dei diritti civili e politici.

In altri termini, si tratta della postura emotiva e intellettuale che costituisce la grammatica di quella singolare sindrome autolesionistica prevalente nel discorso dei nostri apparati politici e mediatici, in virtù della quale l’immigrazione diviene il corpo su cui sperimentare la produzione di sistemi di diseguaglianza come fissazione di forme di partecipazione sperequata tra individui e gruppi alla vita economica e culturale della società e allo spazio pubblico. Atteggiamento che s’inquadra in una più generale tendenza che avverte l’instaurazione di gerarchie di fatto, e tendenzialmente di diritto, e di sistemi rigidi di comando come più urgente e più utile della valorizzazione del capitale sociale che questa scelta va irrimediabilmente a sacrificare. Insomma, quella ricetta, se non modello, tipico del contesto italiano, che vuole far passare l’immigrazione attraverso percorsi rallentanti e deprimenti, quasi, per dirla in gergo retorico, una sequela di preterizioni che ammettono, ma a patto di mutilare, se non altro pro tempore, ciò che viene ammesso; che accolgono, ma imponendo soste lunghissime in sala d’attesa; che spesso espellono più per il respingimento operato dalle contrazioni spastiche della crisi nei confronti dei più deboli che per un’effettiva strategia di espulsione. Si pensi, pars pro toto, al tema oggi in via di esplosione delle cosiddette seconde generazioni composte da giovani italiani di fatto, sospesi nella condizione di immigrati riprodotti, di estranei mal tollerati per paradossale diritto ereditario, bloccati sulla soglia da una sorta di incertezza di sistema circa la possibilità di poterne fare veramente qualcosa, parte di una più vasta incertezza circa la possibilità di poter creare le condizioni nelle quali concepire e trattare come risorsa ampie porzioni della realtà umana presente nel Paese, donne, giovani, anziani. Soprattutto quando tale valorizzazione si leghi alla necessità di mettere in questione sia i criteri di lettura mediante i quali questa realtà si rappresenta sia l’intangibilità dei sistemi di controllo sociale che attraverso di essi tendono a legittimarsi.

La svolta epocale alla quale il tema immigrazione oggi rinvia – e che esso contribuisce a illuminare quanto più si accentua la sia capacità di imporre una propria trattazione non comodamente segregata dai contesti processuali nei quali soltanto esso prende davvero senso – è quindi quella che vede rimesse in questione le categorie attraverso le quali la vicenda europea dello Stato-Costituzione ha modellato il repertorio di forme che ha innervato negli ultimi due secoli l’espansione quantitativa e qualitativa del rapporto Stato-Società civile. Propriamente, la messa in questione delle infrastrutture concettuali in base alle quali i saperi applicati alla realtà umana in questo contesto culturale e politico hanno chiamato “società”.

Le migrazioni di questi ultimi decenni sono solo una delle molte dimostrazioni di come non esistano ormai processi veramente significativi che siano contenibili nella cornice del singolo Stato-Nazione. La natura velleitaria dei proclami che vorrebbero l’immigrazione sottomessa alla sovranità statale al punto di poter essere bloccata o consentita con la facilità con la quale si apre o si chiude il rubinetto dell’acqua, è non a caso irrisa dalla contestuale impossibilità di agire allo stesso modo sui flussi finanziari, sulle reti informatiche, sul farsi di volta in volta centro rispetto alle tradizionali geografie statuali, di spazi altri, quelli nei quali trova provvisorio equilibrio la rete governamentale composta da istituzioni supernazionali sostenute non da una qualche attribuzione di sovranità ma solo dalla forza con la quale il loro funzionamento si impone come praticamente indispensabile.

È una prospettiva nella quale le specificità delle singole situazioni nazionali sono sempre di più riconducibili all’insieme delle modalità con le quali, su piani diversi e perlopiù non riconducibili a una ricomposizione unitaria, si attua la modulazione specifica da parte di un Paese o di una sua parte della propria “internità” alla curva di un processo che ne supera i confini.

D’altro lato, è constatazione che s’inquadra agevolmente nel tema delle nuove diseguaglianze, ormai non più nuova, quella che vede i confini nazionali, rispetto al fenomeno migratorio, paragonabili non ad un muro invalicabile ma ad una sorta di rete che, più che arrestare, sottopone il flusso migratorio ad una sorta di differenziata formattazione. Si pensi a quella sorta di distillazione frazionata con la quale dal flusso dei migranti si ottengono le quote previste dalla normativa vigente, con la presenza degli esseri umani accolti vincolata all’esistenza di un contratto di lavoro, sino agli invisibili, ma organizzabilissimi, clandestini, chiamati a rinnovare l’esercito dei senza diritti. Caso singolare in cui, di fatto, il confine sembra servire ad ammettere più che a bloccare, ma a patto di sottrarre nel passaggio ogni prerogativa che garantisca al migrante una sua capacità di agire nel contesto civile.

La svolta quindi agisce innanzitutto come obsolescenza dell’ottica che garantisce le grandi rappresentazioni di “stato”. In questi anni, si è assistito a un successo forse troppo facile e generalizzato del tema della fluidità-liquidità. Almeno in parte, esso risulta spiegabile in quanto si è potuto mettere in campo l’elemento della fluidità senza però che si evidenziasse appieno, con relative complicazioni, come ciò che rende plausibile la sua prestazione ermeneutica in realtà agisca, più che legittimando una sorta di assolutizzazione del puro “sociale”, proprio all’interno dei sistemi dei saperi applicati alla produzione e alla manutenzione dell’ordine. E più complessivamente, a quei sistemi di saperi applicati all’insieme dei soggetti che ne sono stati sino ad oggi gli operatori, con effetti che imporrebbero l’elaborazione di modi di decifrazione di intervento parametrati sull’esigenza del rapporto con un altro “reale”.

L’immigrazione in questa prospettiva si configura come sintomo, nel senso freudiano di formazione compromissoria, che media tra spinte conflittuali e contemporaneamente trattiene il disagio riproponendone costantemente l’evidenza. Tale sintomo consente che il sembiante dello Stato-società permanga come riferimento stabile con le sue retoriche e le sue logiche istituzionali, oltre che con le relative ideologie di servizio, come la fonte stessa della rappresentazione della realtà e delle definizioni che ne qualificano i fenomeni degni d’essere riconosciuti come significativi. Nel contempo può lasciare che le dinamiche che ne decompongono secondo altre ragioni la complessione effettiva emergano per segmenti accorpati nell’oggetto discreto, in qualche misura separato e, almeno immaginariamente, rimovibile che si chiama immigrazione, con il suo corredo di problemi, urgenze, narrazioni peculiari, portate da fuori, dalla venuta degli “altri”.

Chiedersi che cosa operi decisivamente nella concreta determinazione del sintomo comporta un esercizio di decifrazione che contiene in sé il rischio di dilatare pericolosamente lo scenario evocato. Eppure, se è vero che tante volte avvertiamo la sensazione di trovarci, quando si parla di immigrazione, imprigionati in un’agenda “maledetta”, sistematicamente ostile nei confronti di tutte quelle occasioni di invenzione originale che le pratiche interculturali propongono con larghezza, un rischio siffatto va probabilmente corso. È quindi, crediamo, plausibile avanzare almeno alcuni frammenti d’ipotesi:

 

  • Nel corso degli ultimi decenni, in maniera più vistosa almeno dal 2001, si fa evidente in Italia l’operare di una rete di scelte, tra loro non necessariamente coordinate ma tendenti a produrre effetti di sistema, che convergono nella progressiva tendenza a vivere con disagio l’innalzamento della quantità e della qualità del capitale umano consistente nel patrimonio di risorse intellettuali e relazionali presenti all’interno dello spazio italiano. Una tendenza che si manifesta nel rifiuto di assumere l’innovazione scientifica e tecnologica, ma anche e soprattutto culturale, come condizione fondamentale dello sviluppo, e quindi a privilegiare culturalmente forme di partecipazione alle grandi trasformazioni imposte dai processi della globalizzazione in cui il mantenimento degli assetti esistenti, o meglio spesso solo di loro illusorie rappresentazioni, e l’affermazione dell’autosufficienza delle esperienze già acquisite, e peggio ancora delle retoriche relative, diviene aggressivamente intollerante. Si pensi a quella fortunata proposta politica fondata sul rigetto della cultura della complessità e sulla supposizione di un’autosufficienza piena delle prassi correnti in alcuni strati sociali, come unico sistema di senso e di competenze essenziali, che pare aver caratterizzato il successo della Lega come soggetto difensore del precipitato socioculturale di una fase, nei suoi tratti essenziali ormai quasi compiuta, della storia economica recente di una parte, immaginariamente scotomizzabile, del Paese.
  • In questo quadro, le rigidità tutelate comportano un’insaziabile richiesta di flessibilità nei confronti delle porzioni di società ritenute o totalmente e immediatamente plasmabili secondo le convenienze, o come portatrici di una loro rigidità fatta di garanzie e di diritti ritenuti non più degni di essere mantenuti. Ciò che emerge con crescente evidenza quanto più le manipolazioni politiche giuridiche praticate nei confronti degli immigrati tendono a confondersi con le sperimentazioni più avanzate di composizione/scomposizione di forza lavoro a bassissimo tasso di difesa costituita da italiani.
  • Con animus diverso e diverse strategie comunicative un po’ tutti gli attori della scena politica ed economica hanno finito per consentire di fatto nei confronti di questa tendenza, concepita come un’indiscutibile necessità storica. Mentre oggi constatiamo come la smobilitazione dell’università, della scuola e della ricerca è divenuta una scelta di governo neanche troppo dissimulata, è più facile comprendere il significato che ha avuto in questi anni il confinamento della presenza migrante nei limiti di una destinazione al lavoro manuale, a bassa qualificazione, non a caso rappresentato per renderlo meno intollerabile per il gusto dei difensori delle fortezze nazionali e regionali, come destinato a riempire il vuoto di manodopera in settori che si vuole rifiutati dagli autoctoni, o, nel migliore dei casi, ad una microimprenditoria destinata peraltro a divenire sempre meno trascurabile. Il disinteresse per risorse più pregiate, e nei contesti più sviluppati ricercate, presenti nell’immigrazione fa tutt’uno con il sistema di scelte prevalso nel sistema produttivo e negli orientamenti di mercato che ha preteso che molta forza lavoro abbia dovuto accettare una forte riduzione della propria qualità per accedere, perlopiù precariamente, al lavoro, o alimentare la cosiddetta fuga dei cervelli, nel cui ambito si comincia a registrare la presenza di quei figli di immigrati che sono nonostante tutto riusciti a superare gli sbarramenti disincentivanti e fruire con eccellenti risultati dei livelli più alti dei nostri sistemi di formazione.
  • È nel contesto della sinergia negativa tra scelte che prevedono di fatto non la crescita e lo sviluppo come circostanze che richiedono la valorizzazione del mutamento complessivo e, magari, la rimessa in campo di porzioni passate sotto silenzio del patrimonio culturale italiano, ma l’intangibilità dei sistemi di controllo sociale quale vera priorità costituzionale, che acquista un senso più preciso l’articolazione che associa l’enfasi sull’integrazione e la tendenza alla codificazione culturale e giuridica di scansioni neocastali della società, con il complementare imperativo a non mettere le mani nelle tasche degli italiani ricchi e socialmente protetti.

 

L’integro che si riduce a fata morgana è la condizione che rende possibile pensare la convergenza del nuovo sul disegno di ciò che dovrebbe permanere. Mentre la realtà evolve non soltanto come mutamento di quanto mantiene comunque i contorni, i confini della propria identità, ma, nei molti piani in cui si scompone la sua effettiva consistenza reale, si risolve in una pluralità di configurazioni non più riconducibili alle entità riconosciute dalle rappresentazioni tradizionali.

Insomma, culturalmente e politicamente l’Italia dell’economia e delle istituzioni sembra riluttare di fronte a quanto richiederebbe una diversa concezione dello spazio e del tempo per essere riconosciuto come risorsa. Ciò riguarda innanzitutto il tessuto della società italiana. Rispetto a ciò che in essa accade, le questioni specificamente riguardanti gli immigrati (induttori poi di problematiche interculturali la cui importanza e complessità si esaltano e si chiariscono quanto più si eviti di ridurle a manifestazioni di essenze immutabili e vocazionalmente conflittuali) sono poco più che degli evidenziatori.

Anche dalle significative puntualizzazioni offerte dalle ricerche del Laboratorio veneziano, risulta evidente che in contrasto con il regime bloccato dei discorsi correnti sul rischio immigrazione si profila un’altra agenda per la ricerca e la pratica sociale.

Si tratta di tematiche che compaiono quando ci si accorge di essere innanzitutto noi italiani, anche quando tenacemente sedentari, degli immigrati in casa propria, transitati dal nostro Paese di venti, trenta anni fa a quello di oggi, per effetto di processi che sono nel loro sviluppo più ampio gli stessi che hanno prodotto il flusso delle migrazioni. Quindi, l’esigenza è quella di concepire l’ordine e la qualità dello sviluppo a partire da un mondo d’identità plurime, di circuiti internazionali e interstatali che richiedono il riconoscimento di diritti per coloro che li vivono come un tempo si viveva entro precisi confini, di reti di relazioni che non possono essere ricondotte all’esercizio ordinatore della classica sovranità statuale e che presuppongono per la ricerca dell’ordine e della qualità della vita una capacità di navigazione ad un tempo più duttile, più intellettualmente flessibile e rigorosa, più aperta nei confronti di quanto si produce nelle relazioni tra uomini.

Qui forse si aprirebbe lo spazio per approfondire le prospettive connesse con un più sostanzioso rapporto tra la sociologia delle migrazioni, la riflessione teorico-politica e la ricerca interculturale. Sviluppi virtuosi rispetto alla congiuntura presente si legano inevitabilmente all’intensità e alla frequenza con la quale da quelli che ci appaiono innanzitutto come oggetti di indagine riusciranno ad emergere eventi soggettivi capaci di imporre anche agli operatori della ricerca lo sforzo epistemologico necessario a rispondere non inadeguatamente alla qualità del loro evento.