Accento acuto. Una poesia, due lingue

Per gentile concessione dell’autore Bruno Francisci pubblichiamo l’introduzione del Prof. Brandalise alla raccolta di poesie “Dria strada” uscita per i tipi di Visioni Altre nel 2021, buona lettura.

Sospendere la purezza dell’istante e affidarne il riverbero di infinito che lo illumina al ritmo di un respiro che lo consegni al tempo amico di una metrica complice, è intento che sembra convivere da subito con il gesto primo in cui si profila il tratto proprio della poesia lirica. Se ci si presenta con l’allure di una perfezione antica inarrivabile, ma tutt’al più commemorabile sentimentalmente, come nella sua rimeditazione romantica, nel dettato delle manifestazioni inaugurali del genere disseminate nelle sue diverse aurore storiche, esso pure a ben vedere assiste sino ad oggi anche e soprattutto i tentativi, per lo più destinati a ad un’archiviazione tempestiva quanto il soprassalto di vitalità che comunque positivamente e “poeticamente” li ispira, di chi, da principiante, cerca nei propri versi il segno riconoscibile di una propria intuizione di ciò che possa essere poesia. Difficile sottrarsi al richiamo di quella impeccabile identificazione della lirica che Paul Celan procurava associandone l’essenza all’ “accento acuto del presente”.

Insomma lo sguardo che si spalanca nel presente per percepirvi il traffico di tempi che lo abita sino ad avvertire la traccia di quell’eternità che pare proprio nella sua effimera consistenza trovarsi a casa propria, costituisce la condizione originaria del gesto poetico, ed è forse quel moto di autoapprofondimento che lo porta a volte a quasi sciogliere quanto in esso si struttura come testo nella semplicità dell’afflato e del canto che a volte sembra accomunare esiti diversissimi per maturità artistica e per rilevanza storica. La singolarità di una voce poetica può darsi a cogliere come peculiare disposizione di uno sguardo, rammentando che, come spesso alcuni episodi del pensiero contemporaneo hanno evidenziato, nello sguardo oltre a guardare si è anche sempre guardati. In altri termini la poesia è anche sostenere, con una gioia che sarà appannaggio del verso, l’esposizione dello sguardo al rischio certo di una ferita implicita nel suo stesso aprirsi sulle cose. Persistere in questa disposizione svolgendola in confidenza consapevole con il suo farsi parola è quanto alimenta lo stile, il timbro specifico di una poesia.

In questa raccolta, cui Bruno Francisci consegna l’esito, tornito da un avvertibile esercizio di assidua rimeditazione e di ostinata politura, delle ultime stagioni del suo intrattenersi con il verso, la qualità del vedere-sentire che ne è l’atmosfera vitale potrebbe essere cifrata affidandola ad una figura che tende, almeno per chi scrive, a condensarsi all’altezza del punto in cui si incrociano le principali costanti dell’immaginazione che la abita. Due lingue paiono stagliarsi come due alberi gemelli sullo sfondo di un cielo aperto quanto abitato da un chiarore prezioso, ma che non concede sconti sul prezzo a chi voglia lasciarsi attraversare dalle sue rivelazioni. Spesso – alcuni momenti alti della produzione lirica novecentesca nascono in questa – la poesia cerca in un idioma remoto da prestigi letterari, alitante in micropatrie a un passo dal dileguare in miraggio, la materia prima con la quale forgiare un gergo poetico capace di ospitare eventi non intaccati dal degrado delle dominanti convenzioni linguistiche. Questo è stata la declinazione nobile di una letteratura dialettale a volte confinantesi nelle analgesie dell’idillio vernacolare.

Qui però il distillato della risorsa linguistica della vallata trentina e il dettato in lingua italiana stanno in un rapporto paritario, decisivo nel creare le condizioni per una contemplazione non fraintendente del paesaggio morale che si dispiega nel loro corrispondersi. In altri termini, il testo italiano non fronteggia quello “dialettale” con intenti di servizio al modo di una traduzione, ma veicola l’impulso originariamente bilingue di questa poesia, dove l’intensità emotiva di uno sguardo che si abbandona senza sollecitare facili consolazioni al contatto con un reale in cui convivono lucidamente registrati gli incanti di sempre e le acuminate cuspidi della memoria. Senza azzardare formule critiche che propongano una schedatura di questi versi ai fini di un loro inserimento nelle mappe della produzione lirica contemporanea, non si nasconderà la sensazione di trovarci di fronte a un esercizio che sembra coordinare il proprio respiro con quello di una classicità senza classicismi, in cui la poesia non pare nutrire dubbi sul proprio diritto all’esistenza cercando una misura esatta iuxta propria principia. Il dialetto non offre rifugio e l’italiano non lo sollecita.

Nel riproporsi così simile e così diversa nei due idiomi questa poesia esalta l’inevitabile identificazione del suo luogo nello spazio che continuamente si viene invitati a ripercorrere oscillando tra l’uno e l’altro, che è quello in cui la sensibilità che la abita non cessa di esporsi all’impatto con la superficie sulla quale l’esistenza indurisce le sue evidenze più indiscutibili.