Ruoli politici e ruoli produttivi nella struttura aziendale

Pubblichiamo l’articolo del Prof. Brandalise comparso all’interno del volume Il caso Zedapa : analisi di una transizione, primo numero della collana dei Quaderni di Fabbrica società e stato uscito nel 1978.

Qualsiasi discorso che si proponga di ricostruire e interpretare la fase della vicenda Zedapa che si colloca tra il ’69 e la cronaca di questi ultimi mesi deve naturalmente gravitare attorno all’intreccio dei problemi e nodi tecnico-politici della ristrutturazione. D’altra parte, è pur vero che l’assunzione di un’ottica di piano di ristrutturazione tutta costruita dentro limiti tecnici, manageriali e quindi ostentatamente «apolitici», rischia di fallire gran parte dei suoi obiettivi o, quanto meno, di non contribuire a portare allo scoperto il senso complessivo della presente crisi.
In realtà, sia ripercorrendo la cronaca di quanto in questi anni accade nella fabbrica e nell’impresa che la contiene (sulla scorta delle testimonianze delle letture di parte padronale e operaia), sia tentando di dar corpo a una nuova fisionomia del rapporto fabbrica-impresa-settore, minuterie metalliche, non è possibile evitare di confrontarsi con un dato di fatto: la crisi della Zedapa, come quella esplosa o dilazionata di molte altre medie e piccolo-medie industrie, è tra l’altro e forse principalmente la crisi di un sistema di tecniche, di saperi applicati, di competenze che ha costituito e governato l’impresa e la fabbrica strutturando nel contempo lo spazio delimitato nel quale si sono dati battaglia e si sono mediati gli interessi sociali nati dall’impresa e i soggetti cresciuti dentro e attorno ad essa.

Sintomaticamente, la crisi Zedapa è anticipata e poi accompagnata dall’espandersi della quantità di discorsi, critiche e proposte che tentano di rispondere con differenti finalità alla crescente complicazione di un sistema di rapporti prima così definiti e «semplici», da non richiedere grandi sforzi interpretativi. È il vecchio sapere della fabbrica che progressivamente si decompone: i bollettini padronali, il crescere e l’articolarsi (lo stesso fissarsi in testi scritti, volantini e documenti delle prese di posizione delle organizzazioni operaie, gli elaborati degli staff manageriali, sino, recentissimamente, al moltiplicarsi dei soggetti a vario titolo chiamati al capezzale dell’azienda dopo l’esplosione della fase acuta della crisi, concorrono a sottolineare il solco che va scavandosi tra le dimensioni e le forme delle dinamiche economiche e sociali che oggi attraversano lo spazio della fabbrica e quelle che per tanto tempo hanno garantito alla fabbrica la possibilità di presentarsi come una realtà autosufficiente, pienamente governabile da un discorso che non ne varcasse mai i confini.
La crisi si profila, significativamente, come rottura del silenzio stampa che sino alla fine degli anni sessanta avvolge, e almeno dal punto di vista padronale protegge, la fabbrica, e trova la sua piena espressione nella fase attuale, quando diviene per universale riconoscimento un problema di rilevanza che va oltre il puro fatto aziendale, quando cioè, seppure in forma contraddittoria, spesso parziale o mistificata, padronato, enti locali, partiti sono costretti a riconoscere che le «radici» e le ramificazioni di questa fabbrica dentro ai processi sociali ed economici che hanno modellato la realtà territoriale del Padovano, sono assai più estese di quanto non si fosse prima ritenuto di potere e di dovere constatare e, soprattutto, che il loro intreccio porta la fabbrica ad avere storicamente un ruolo nodale nella determinazione di quel sistema di strutture ed equilibri politici, il cui funzionamento ha modulato lo sviluppo delle forze produttive e regolato e mediato l’evoluzione delle formazioni sociali.

Nel momento nel quale il discorso sulla fabbrica porta di necessità fuori dai suoi confini (e ormai anche il più prudente e «realistico» progetto di rilancio della Zedapa non può che proporsi che come un capitolo di un piano di settore delle minuterie metalliche in collegamento stretto con ipotesi relative al destino di altri settori), questo è il segno che proclama l’esaurimento, oltre che di un preciso modello culturale e politico di governo dell’impresa (la Zedapa infatti vive in questi ultimi mesi il volatilizzarsi dell’imprenditore-padrone), anche l’ormai precaria tenuta di un modello più vasto, dinamico ed articolato, intessuto di conflitti duri e tenaci ma sostanzialmente unitario, quello cioè che collega, attraverso il tessuto delle fabbriche, lo sfruttamento delle risorse produttive con l’esigenza espressa dal sociale, sia nella forma di bisogni, sia in quella di un’offerta di lavoro determinata. Bisogni e offerta di lavoro che si presentano oggi con caratteristiche perentoriamente nuove per forma e quantità e che pongono rispettivamente il loro soddisfacimento e la sua valorizzazione come parametri della validità politica e della stessa praticabilità di una strategia di riconversione. Se l’analisi della vicenda Zedapa ha un senso che va oltre la registrazione della fine di un ciclo, questo probabilmente risiede nell’opportunità di rendere evidente come il quadro dei temi sul quale è chiamato ad operare lo sforzo innovativo della riconversione sia costituito dall’intera rete di rapporti che trovano nella fabbrica il loro plesso più evidente: aziende come la Zedapa sono state di fatto il modo concreto in cui un determinato «territorio» ha vissuto l’esperienza della industrializzazione; proprio la loro esistenza ha promosso interessi e contribuito spesso in maniera determinante a produrre nuovi profili sociali, ha fissato e poi messo in discussione gerarchie di prestigio e di potere, e dentro la cornice complessiva dello sviluppo, che garantiva un accesso, sia pure sperequativo, al «nuovo» creato dall’espansione del sistema economico a tutta una serie di soggetti fissando le regole del loro gioco.

Ora che tali regole sembrano inadeguate a filtrare la richiesta di sviluppo espressa dal sociale e che la loro malferma tenuta suggerisce, a quanti ne sono stati i principali utenti e beneficiari, l’opportunità di cambiare tavolo, il problema essenzialmente posto dall’oggi è quello di individuare, vale a dire, di costruire, i soggetti, le alleanze, gli interessi che potranno dar vita a un nuovo ciclo, di riconoscere i nuovi tipi di sapere destinati ad incorporarsi nei processi lavorativi, a qualificare così in modo nuovo la fisionomia della stratificazione della forza lavoro, la composizione della dirigenza, il ruolo della mediazione istituzionale e politica.

Questo per tutti. Per la classe operaia si tratta più precisamente di tradurre in progettualità e in comando il proprio peso contrattuale, di imporre cioè che la qualità delle soluzioni che verranno addottate, e quindi dei soggetti destinati a produrle, sia adeguata alle esigenze di una strategia di politica economica che complessivamente sappia garantire l’aumento della produttività del sistema attraverso l’innalzamento della qualità del lavoro e quindi la valorizzazione piena della forza lavoro che oggi preme sul sistema dell’occupazione. Si tratta, più esplicitamente ancora, di assumere di fatto la direzione di tale processo interpretandone la sostanza politica, portando cioè la propria organizzazione a dotarsi della capacità di procurare a tale progetto il supporto di strutture di produzione di lavoro intellettuale necessario a definire l’articolazione e di forme di aggregazione politica in grado di creare partecipazione e coinvolgimento. In questa luce la disgregazione di modelli di sviluppo (e di organizzazione del potere) e dei saperi finalizzati a dirigerne e a giustificarne il funzionamento, oggi in corso, offre immediatamente l’opportunità di dare un contributo almeno preliminare all’avviamento di questo lavoro, tentando di ricostruire il nesso che lega storicamente la costituzione materiale di tali modelli alle ragioni della loro crisi.

La Zedapa degli anni precedenti l’ultimo conflitto mondiale o, più precisamente precedenti la distruzione dovuta ai bombardamenti del ’44, è come già si è visto in tutti i sensi un’industria che ha decisamente superato i limiti dell’impresa artigiana, e che anzi ha già raggiunto il primato indiscusso nel settore delle minuterie metalliche e una posizione concorrenziale sui mercati europei. Ciò che più conta, comunque, dal punto di vista che qui ci interessa, è che essa lascia in eredità all’azienda che risorgerà e si svilupperà nel dopoguerra il rapporto fondamentale destinato a sorreggere sulle proprie risorse e a segnare con i propri intrinseci limiti il successivo sviluppo dell’azienda, quello che lega due elementi conflittuali e pure, in un certo senso, fatti l’uno per l’altro, espressione entrambi di un contesto socioculturale che giustifica la loro complementarietà: la figura tecnico-politica del padrone capitalista-imprenditore, finanziatore e governatore paternalista della fabbrica da una parte, dall’altra una forza lavoro la cui fisionomia culturale concilia la detenzione di un ricchissimo patrimonio di abilità nella lavorazione dei metalli, ereditato da un antico passato artigiano e dall’esperienza della prima industrializzazione, con la sostanziale refrattarietà ad uscire da un repertorio di comportamenti radicato in un’humus sociale contadino-artigiano.

La produzione di stampi e i livelli di eccellenza da essa raggiunti e conservati sta strutturalmente al centro di questo rapporto e quindi al centro della fabbrica, di cui rappresenta l’elemento unificatore. Su questo la Zedapa, a ben vedere, fonda la sua capacità di espandere, in successive fasi, la tipologia dei suoi prodotti e di intrattenere rapporti con settori differenziatissimi, dall’abbigliamento all’elettronica, e quindi di partecipare all’espansione economica del dopoguerra. L’impresa trova la sua motivazione fondamentale nel portare a livello di vera e propria industria lo sfruttamento di tali capacità senza operare essenziali salti di qualità che ne trasformino la struttura in direzione di più complesse tecnologie, con le relative conseguenze sulla composizione della managerialità e della forza lavoro e sulla forma del loro rapporto.

In altri termini, la produzione di stampi e il repertorio di capacità e di specifici profili tecnico-professionali in essa implicato rappresentano oltre che il comune denominatore destinato a connettere quelli che di per sé altro non sarebbero che fasi decentrate di cicli produttivi, anche e, forse soprattutto, il dato a partire dal quale si costituisce la fisionomia delle intrinseche potenzialità di sviluppo della fabbrica e conseguentemente anche il suo limite, la impalcatura che regge la rete di rapporti determinanti il funzionamento tecnico e politico della fabbrica, l’insieme cioè dei ruoli imprenditoriali (dal «rischio d’impresa» alla «direzione aziendale») e della forza lavoro (dalla stratificazione nei processi lavorativi alla dinamica dei comportamenti politici, dalla promozionalità gestita dal padrone alla sindacalizzazione), ma anche una riserva di capacità innovative qualitativamente e quantitativamente tutt’altro che infinita, oltre l’esaurimento della quale è quella stessa rete di rapporti ad alterarsi e ad andare progressivamente in crisi.
Alterazione e crisi che, come si tenterà di dire più ampiamente in seguito, prendono significativamente l’aspetto non di una clamorosa catastrofe aziendale (la Zedapa è anche ora al culmine delle sue difficoltà tutt’altro da ciò che normalmente si definisce un’azienda decotta, anzi in quanto «fabbrica» in senso stretto godrebbe di una non disprezzabile salute), ma di un più strisciante e a prima vista indecifrabile processo di scioglimento di quella sorta di patto non scritto, ma comunque per lungo tempo rispettato, che lega imprenditore e maestranze attorno alla fabbrica, vissuta come luogo di una mediazione tra spinte, disponibilità ed esigenze.

Ed è anzitutto all’interno di questi limiti che viene assicurata l’adeguatezza della figura del capitalista-imprenditore, caratterizzata da una forte personalizzazione della direzione aziendale e da comportamenti empirici tutti risolti nel controllo della partecipazione operaia e nel curare un rapporto per lo più provvidenzialmente semplice con un mercato costituito da un gruppo abbastanza ben definito e sicuro di acquirenti. E questo quando già il governo dell’impresa richiederebbe altro apparato di competenze, altro rapporto col mercato, altri criteri di assorbimento, selezione e sfruttamento delle capacità tecniche e tecnico-scientifiche presenti sul mercato del lavoro, e quindi altra composizione della dirigenza e altri supporti finanziari là dove intendesse puntare su di una produzione più tecnologicamente ambiziosa accettando per un prodotto di più alto valore aggiunto i rischi di una più complessa e costosa organizzazione. L’imprenditore, in sostanza, incornicia nell’impresa dei processi lavorativi le cui fondamentali componenti sono «date», così come è «data» la fisionomia socio-culturale della forza lavoro con i suoi apprezzabili requisiti di abilità e di coinvolgimento emotivo e intellettuale nel lavoro nonché con quelli ancor più apprezzati legati ai suoi relativamente modesti costi di riproduzione che contribuiscono per lungo tempo, con il conseguente contenimento del costo del lavoro per l’impresa, a garantire competitività dei suoi prodotti.

Di suo egli aggiunge appunto l’impresa, l’esperienza della quale è esattamente ciò che manca più ancora che i capitali, ai suoi capi operai per poter divenire a loro volta imprenditori (ciò che, come si vedrà oltre, non mancano di fare non appena è loro possibile e che l’azienda madre ha almeno inizialmente buoni motivi per lasciar loro fare); soprattutto – e questa è probabilmente la sostanza del suo paternalismo – egli si assume una sorta di rappresentanza politica complessiva, squisitamente interclassista, dell’insieme degli interessi economici e, perché no?, morali, legati all’azienda: con lui il capitale (con la rete di protezioni, di solidarietà politiche, di mediazioni istituzionali che il capitale riesce sempre poco o tanto a far ruotare attorno ai propri movimenti) risulta fortemente coinvolto, radicato nell’azienda, corrispondendo così «lealmente» gli obblighi che gli derivano dalle molte opportunità che gli sono state elargite dalla disponibilità di quella forza lavoro. Lealtà, beninteso, rispetto alle esigenze complessive di quell’insieme di processi nel quale è possibile riconoscere le linee-forza dello sviluppo socio-economico veneto, della cui logica realtà produttive come quella in questione rappresentano un essenziale passaggio e di cui l’imprenditore è un operatore di fondamentale importanza ma non necessariamente, nella sua autonomia specifica di singolo imprenditore, l’elemento egemone.

Quest’ultima considerazione merita di essere chiarita attraverso un riferimento esteso oltre il caso Zedapa al modello di industrializzazione in cui esso è inserito. Come già si è detto, il vecchio sapere aziendale «vede» solo dentro la fabbrica. La sua efficienza sta nell’occultare più che nel mettere in evidenza. Per garantirsi un controllo sicuro e operativo sul lavoro, deve attribuire alla fabbrica un’autosufficienza che essa in realtà non ha e dissimulare la continuità di dinamiche che ne rendono possibile la sopravvivenza e lo sviluppo, collegandola nel suo insieme e nelle sue singole componenti con realtà esterne alla tematica propriamente aziendale. Proprio questo d’altra parte è il modo col quale, nella logica dell’articolazione politica che connette e regola tali dinamiche, la fabbrica si integra positivamente al processo che la comprende. Proprio restando nei limiti qualitativi che contrassegnano la sua autonomia, essa può svolgere, come cellula di un tessuto, il ruolo che le spinte dei vari interessi e l’equilibrio dei rapporti di forza le assegnano, ricavando nel contempo dalle situazioni che costituiscono l’esito complessivo le condizioni, la materia prima sociale colla quale alimentare il proprio ciclo. In tal senso la Zedapa non deve essere considerata esclusivamente per analogia, nel contesto della piccola e media industria padovana e veneta, ciò che significherebbe ridurre l’analisi una volta di più nei confini della fabbrica, ma va colto invece facendo su tale sfondo risaltare l’indubbia specificità di questo caso il disegno complessivo delle trasformazioni che tale tessuto produttivo determina.

In questa prospettiva la fabbrica si presenta come un grande filtro che progressivamente trasforma una realtà di tipo agrario contadina, egemonizzata da figure sociali arcaiche, in un tessuto estremamente composito di attività produttive, apparentemente caotico ma di fatto solidamente aggregato dalla solidarietà di fondo che lega, nella comune (per quanto ineguale e spessissimo carica di una sua vistosa sofferenza) partecipazione all’espansione economica, la gamma delle nuove o rinnovate figure sociali con esso cresciute, e che tale trasformazione produce garantendo la configurazione sociale e culturale originaria del territorio da traumi troppo violenti. Ciò che più esplicitamente significa disseminazione dell’apparato produttivo sul territorio, aziende che non eccedono la dimensione della media industria ma che nella maggior parte dei casi rimangono in quella della piccola impresa o dell’azienda artigiana, caratterizzate comunque da limitato capitale costante e tese a sfruttare l’opportunità di una politica di bassi salari, quale appunto è consentita dal basso costo di riproduzione della forza lavoro nonché (con intensità crescente quanto più risulta insufficiente o scarsamente praticabile la formula occupazione regolare – basso salario) dal ricorso al tempo parziale, al lavoro a domicilio o comunque non censito. Di qui anche attività in vario modo connesse alla fabbrica o stimolate dai bisogni da essa prodotti, tali da creare in simbiosi con il non cancellato sostrato dell’economia rurale e della civiltà contadina una rete a maglie molto fitte di possibilità di accesso al reddito, di cui la figura spesso citata dell’operaio-contadino non è che una delle molte concretizzazioni, ed alle cui disponibilità è dato attingere allo stesso nucleo familiare e allo stesso individuo contemporaneamente in più forme. Inoltre, apparentemente separata e distante dalla fabbrica, in realtà integrata nel funzionamento complessivo del modello socio-economico che su essa si fonda, emerge e cresce una gamma articolatissima di ruoli che occupano lo spazio della mediazione tra la fabbrica e il sociale, evidenziandone e contenendone, ad un tempo, le contraddizioni, in una sorta di equilibrio instabile tra sollecitazione di salti di qualità e difesa conservatrice di posizioni acquisite. Ruoli che vanno da quelli svolti dalle articolazioni tecniche del capitale finanziario e del sistema del credito (comprensivi della funzione di ceto politico di coloro che ne sono i portatori) a quelli libero professionistici amministrativi e commerciali, a quelli di tecnici e ricercatori, tutti in vario modo interpretabili anche come funzioni decentrate della fabbrica, sino a quelli presenti in strutture pubbliche fornitrici di servizi amministrativi e assistenziali, il cui svolgimento convive con l’assolvimento di una specifica funzione di assorbimento di forza lavoro eccedente per quantità o per qualificazione rispetto al respiro dell’apparato produttivo. Si tratta cioè di buona parte di ciò che siamo soliti aggregare sotto la denominazione di «terziario». Ma in realtà, dall’operaio contadino alle forme più evolute del terziario, vi è tutto un ampio ventaglio di possibilità di promozione sociale. La fabbrica direttamente o indirettamente contribuisce in maniera risolutiva a produrlo; per molti essa è l’unico tramite allo sfruttamento delle occasioni che esso propone.

È in definitiva su queste basi che la proposta del capitale (e non soltanto quello che si fissa attraverso l’imprenditore all’impresa) trova risposta in una forza lavoro condizionata da un consenso non privo di controtendenze ma capillarmente diffuso. Consenso o, quantomeno incapacità di produrre forme di dissenso, che si presentino con l’articolazione e la corposità politica dell’alternativa, che superino nella fabbrica il limite di un sindacalismo che, sino al ’69 quando esce dalla latenza, difficilmente vive in termini diversi da quelli di una controversia privata e apolitica, per riconnettere nel sociale quanto la logica del «modello di sviluppo» ha voluto separato e non comunicante, come garanzia di un sostanziale rispetto della gerarchia di interessi e di poteri che su quella articolazione per separatezze fonda la propria legittimazione. Tale consenso, d’altro lato, contiene e modula, senza completamente reprimerla, una spinta profonda a una valorizzazione più ricca delle capacità creative e alla realizzazione di una superiore qualità di rapporti sociali e quindi anche alla rottura degli schemi di un modello che può funzionare solo destinandone buona parte alla dispersione o ad esiti fortemente diminutivi. È una spinta che cresce lentamente e che comincia a parlare forte ma confusa e spesso contraddittoria nelle forme in cui si manifesta la crisi, sintomaticamente cercando, spesso a prezzo di costose semplificazioni, di rompere l’isolamento politico della fabbrica. Nella fase aurea del modello veneto essa non è ancora in grado di perturbarne la sicura affermazione.

Per questo «tiene» il rapporto base della fabbrica, come «tiene» il sistema nervoso delle mediazioni politiche che lo confermano praticamente e ideologicamente. Così il consenso implicito nei comportamenti sociali nei confronti del modello può divenire anche consenso esplicito per una precisa formula politica che ne garantisce la tenuta: l’inserimento positivo di questa realtà economica veneta nel contesto nazionale non ha una storia che possa essere distinta da quella del cospicuo contributo dato da questa regione al mantenimento della centralità democristiana nella vicenda politica del nostro paese.

Come operi nel concreto della fabbrica la logica di questo tipo di sviluppo può essere apprezzabilmente esemplificato ritornando alla Zedapa e focalizzando un aspetto della sua evoluzione, nel quale è dato cogliere con particolare evidenza la continuità di dinamiche che collegano strettamente sviluppi interni alla fabbrica con quelli che essa determina al suo esterno, quello del decentramento.

Parlare di decentramento produttivo nel caso della Zedapa significa di fatto allargare l’oggetto dell’analisi dalla Zedapa al settore delle minuterie metalliche, quantomeno nell’area veneta, che è poi quella maggioritaria. Buona parte, infatti, delle aziende del settore, tutt’oggi meno evolute e voluminose, altro non sono che filiazioni della Zedapa, che storicamente intrattengono con essa per i modi della loro costituzione e per la qualità dei loro rapporti con il mercato, un tipo di relazione nel quale per lungo tempo la complementarietà prevale sulla concorrenza, e a tutt’oggi vedono i loro destini strettamente intrecciati a quelli dell’azienda madre. Ma, ciò che più conta, dove si osservi la Zedapa nel contesto prodotto dal decentramento, è possibile costatare come questo non costituisca un’appendice di secondaria rilevanza, ma si ponga invece come condizione necessaria alla tenuta della sua struttura. L’espansione del mercato, e la progressiva crescita di quelle sue sezioni connesse con settori produttivi a più rapida evoluzione tecnologica e a più rigogliosa ascesa quantitativa, stimola alla Zedapa un affinamento delle tecniche di realizzazione degli stampi e favorisce lo sviluppo di competenze atte a produrre tecnologie.

In tali condizioni, il costituirsi, al di fuori di una vera e propria programmazione e senza forme dirette di controllo da parte sua, di una serie di piccole aziende capaci di produrre in proprio i tipi di minuteria metallica più tradizionali, rappresenta per la Zedapa una circostanza in sé non priva di opportunità. Si decentra innanzitutto il rischio d’impresa per una serie di lavorazioni di modesto valore, destinate oltretutto a correre i rischi del mercato (ciò che com’è noto non avviene per buona parte della produzione Zedapa coperta dalla costanza del rapporto con i principali acquirenti); si crea una nuova quota di mercato rappresentata dagli stessi piccoli imprenditori in quanto acquirenti di macchine e di stampi; si diffonde occupazione (e occupazione a basso costo e flessibilissima, che in quanto tale si presta a rappresentare un imbarazzante contraltare per la forza lavoro impiegata nell’azienda madre), il tutto senza grosse probabilità di veder così sorgere dei pericolosi concorrenti.

A ciò si aggiunge un altro dato, che riporta l’attenzione dentro alla fabbrica: il decentramento rappresenta un esito estremo della promozionalità interna. Per l’operaio che ha esaurito le sue possibilità di ascesa dentro alle gerarchie aziendali e che ha conseguito attraverso l’esperienza dell’impresa le conoscenze minime necessarie ad impiantarne una, trasformarsi in piccolo imprenditore alle condizioni sopra indicate costituisce l’occasione, di fatto unica, per ottenere una ulteriore e risolutiva promozione: quella che emancipa dalla condizione di lavoratore dipendente e, in definitiva, dalla fabbrica. La compatibilità tra questa sua propensione e le convenienze dell’azienda determina le condizioni che rendono il decentramento fattibile e ne sottolinea la natura di operazione complessa, di mediazione sotto più aspetti politicamente significativa. Se dietro alla disponibilità dell’azienda madre a favorire il decentramento (sino indirettamente a finanziarlo attraverso le liquidazioni, con le quali si licenziano i neoimprenditori, che costituiscono spesso il grosso dell’investimento che dà vita alla nuova impresa) è lecito scorgere un accenno di quell’atteggiamento che il capitale praticherà in grande stile, come vera e propria strategia, nel corso della crisi e consistente appunto nel defilarsi da un rapporto troppo diretto e coinvolgente con le attività industriali, e a favorire nella forma più esasperata il dissolvimento della fabbrica e la sua diffusione in una miriade di minuscole cellule di massimo sfruttamento del lavoro. Dietro all’ex operaio che compie il gran salto, sta insomma una storia che è quella in cui si esemplifica il rapporto tra dimensione tecnica e significato politico dell’organizzazione di fabbrica. Oltre alla selezione politica nelle assunzioni, oltre alla larga praticabilità della repressione nei confronti di eventuali comportamenti anomali, è essenzialmente l’opportunità a lui concessa di costruire percorsi differenziati per singoli lavoratori, di retribuire con gratificazioni monetarie o anche semplicemente psicologiche i comportamenti solidali con la «ragion d’impresa», di usare politicamente l’organizzazione del lavoro che consente al padrone di dominare la fabbrica. Con qualche pressa, alcuni stampi e una quota del fondo liquidazioni vengono dirottate verso il decentramento, incapsulate in un abito mentale ormai padronale, un’esperienza e una capacità d’iniziativa cui non è stata data la possibilità di trovare una valorizzazione interna a una crescita complessiva della consapevolezza e dell’iniziativa politica di un’organizzazione operaia. È la forma offerta da parte padronale all’affermazione parziale e subalterna di un’esigenza originariamente ad essa antagonistica. Molto in definitiva dell’ascendente del padrone sta nel lasciar intravedere oltre la fabbrica la possibilità di un’uscita verso il terziario. Ed è forse qui che il rapporto fondamentale imprenditore – forza lavoro raggiunge il grado di maggior efficienza, così come nel suo rapporto col decentramento l’impresa vive la massima espansione nel rispetto dei suoi intrinseci limiti. Oltre si profila una serie di fatti nuovi che verranno progressivamente ad alterare tali equilibri.

Nel corso degli ultimi anni, il mercato delle minuterie metalliche vive uno sviluppo particolarmente accelerato che, oltre ad accrescerne le dimensioni, ne muta radicalmente la qualità e i modi di evoluzione. Su questo dato, su cui va innanzitutto portata l’attenzione nel momento in cui si deve tracciare un quadro dei fattori che conducono alla presente crisi e delle condizioni di suo superamento, ci si sofferma più ampiamente in altra parte di questo volume. Alcuni aspetti vanno, peraltro, anche qui ricordati.

Mentre perdono di rilevanza i settori più tradizionali, e mentre per la conquista delle nuove zone di mercato si scatena una competizione a livello internazionale dalla quale non è possibile per la Zedapa assentarsi, le tradizionali caratteristiche della fabbrica, per tanto tempo suoi punti di forza, tendono ora a mostrarsi in misura crescente come dei limiti.

Quella sorta di distillazione frazionata di tutte le possibilità implicite nell’impiego di stampi e presse (che trovava una collocazione economicamente accettabile per tutti i suoi vari prodotti senza ricorrere all’impiego di competenze manageriali complesse, senza un impegno consistente sul piano della struttura commerciale e tanto più senza una continua verifica), al confronto degli sviluppi scientifici intrecciati alle evoluzioni tecnologiche che ristrutturano di volta in volta la forma del mercato, ora tende a funzionare sempre meno. Ciò che costituisce un incentivo non indifferente alla destabilizzazione del rapporto di reciproca «adeguatezza» tra imprenditore e forza lavoro e a porre con sempre maggior forza il nodo di una ristrutturazione che, spesso aldilà delle previsioni, metta in gioco molto dei fondamenti dell’azienda e quindi richieda notevoli sforzi di autoriforma a tutti i soggetti che vi si trovano coinvolti. Processo questo alla cui determinazione concorrono altri fattori, nei quali trova espressione il complesso degli esiti più recenti di quelle dinamiche sociali e politiche di tendenze generali dello scontro di classe così come si configura nell’insieme dei meccanismi della crisi generale del paese. Fattori – è da notare – che trovano il loro momento unificante nella comune indispensabilità a rispettare la centralità e l’autosufficienza dell’impresa, per proporne un superamento nelle più diverse direzioni (in quella – per esemplificare sin d’ora – di una sua liquidazione in omaggio alle vantate caratteristiche di produttività) della pratica più estrema e selvaggia di decentramento, come pare auspichino certo capitale e i suoi partners politici, o in quella diametralmente opposta di una riconversione che operi su di un piano di settore e si leghi a precise ipotesi di programmazione, affrontando in positivo il nodo del salto di qualità da far compiere all’intera organizzazione della produzione.

Gli anni che vanno dal ’70 ad oggi sono il tempo nel quale questo processo prende quota e acquista chiarezza. La nuova situazione di mercato tende innanzitutto a dare un aspetto molto più problematico al rapporto tra Zedapa e aziende minori, spinte ora ad una concorrenza assai dura con l’azienda madre almeno per tutta una serie di produzioni che costituiscono ancora una porzione non trascurabile, anche se non la più avanzata tecnologicamente, del suo prodotto. Così pure il meccanismo della promozionalità attraverso il decentramento si inceppa, rafforzando le condizioni che favoriscono uno sviluppo peraltro di più ampie e complesse origini e di ben maggiore rilevanza: l’emergere della soggettività operaia e il costituirsi di un patrimonio di conflittualità politicamente sempre più consapevole e di conquiste che spostano i rapporti di forza nella fabbrica.

La crescita generale del movimento operaio durante e dopo il ’69 crea un quadro di riferimenti che offre stimoli e supporti organizzativi e consente l’importazione nella Zedapa della tematica sindacale che viene ad organizzare politicamente un insieme di conoscenze, di capacità di analisi e controllo sul funzionamento della fabbrica e della stessa impresa. A tale proposito si registri la conferma che a tale affermazione deriva dalla cronaca degli ultimi mesi, quando, dopo il gioco di prestigio padronale in virtù del quale l’impresa si è trovata senza imprenditore, gli operai non hanno avuto difficoltà tecniche a gestire l’azienda, ad esercitare cioè la funzione di controllo sull’organizzazione del lavoro, trovando ovviamente il loro limite all’altezza del rapporto fabbrica capitale.

Le lotte sull’inquadramento, sulle qualifiche, sul nesso tra queste e salario, istituiscono delle rigidità che assumono contemporaneamente significati diversi e di diversa portata. Per un verso esse significano tutela dei livelli occupazionali, e quindi in un certo senso dell’organizzazione del lavoro così come essa ora si presenta, d’altra parte queste stesse rigidità possono rappresentare, dove ricollocate in un progetto politico che colleghi il senso delle lotte in fabbrica con il senso della pressione che da parte del sociale in varie forme si esercita sul sistema dell’occupazione e in prospettiva sulle sue strutture portanti, la richiesta d’un rilancio della produttività che vada in direzione d’un superamento del tipo di rapporti di produzione sino ad oggi praticati. È perciò che tali lotte svolgono un’utile funzione, condannando al fallimento ogni tentativo restauratore che punti al ripristino di vecchi equilibri, anche se da sole non valgono a garantire appieno le conquiste che ad esse sono storicamente legate, né a realizzare compiutamente le aspirazioni più profonde che hanno animato il ciclo di lotta da cui esse sono state prodotte, sul terreno della gestione della crisi e del confronto con il suo uso capitalistico.

Nello specifico del caso Zedapa, di fronte alla nuova soggettività operaia, la figura del capitalista imprenditore paternalista è condannata. I suoi titoli di legittimità al governo dell’impresa sono vanificati dalla sua incapacità di produrre un livello di managerialità che consenta la piena espressione delle capacità produttive dell’azienda, e gli strumenti paternalistici della costruzione del consenso, anche se riveduti e aggiornati non senza abilità, hanno ormai una modesta credibilità. Il forte radicamento del suo capitale nell’azienda diviene quindi un rischio eccessivo e un’operazione anche politicamente in perdita.

La sua risposta, attraverso fasi in rapida successione, concretizza nel divorzio dall’impresa, in pratica nella propria dissoluzione come imprenditore e, a quanto è dato intendere – e con ciò si tocca quello che è forse uno dei nodi di maggior rilevanza trascendente le dimensioni di questo caso, tra quanti questa vicenda è in grado di segnalarne – nel far rifluire il proprio capitale nel giro del capitale finanziario.

L’emergere con risalto protagonistico del capitale finanziario sulla scena della nostra economia, il suo soppiantare come immagine del «potere economico» le figure legate all’industria, è un dato tra i meno compiutamente analizzati tra quelli che compongono il quadro della crisi. Quanto sembra comunque di poter constatare è, appunto, una marcata tendenza del capitale a fuggire da un rapporto troppo stretto e coinvolgente con le attività produttive per organizzarsi secondo una strategia che ne valorizzi al massimo la mobilità emancipandolo da responsabilità locali e rispetto alla quale la singola fabbrica appare come una realtà remota, mentre è il sociale nel suo complesso ad esercitare una reale attrattiva. Sono, in altri termini, quelle situazioni esterne a ciò che tradizionalmente si intende per produzione e che la fabbrica ha concorso a produrre e ad alimentare che oggi il capitale pare cogliere come il terreno propizio per la propria iniziativa: terreno adeguatamente discosto da quella realtà operaia, indocile e costosa, della cui rigidità ha fatto debita esperienza, e ricco invece di una produttività nuova, più agevolmente governabile. Si ha quasi l’impressione che la nuova organizzazione dei saperi del capitale, la sua conoscenza del sociale, il suo patrimonio di tecniche finanziarie, il suo stile nell’uso delle istituzioni, avvertano una certa qual ripugnanza per la realtà e la cultura dell’azienda, con una conseguente indisponibilità alla convivenza, fatta forse eccezione per quelle forme di aziende decentrate dove l’impresa è ridotta ai minimi termini, la forza lavoro sta sotto la sigla del lavoro nero e il capitale, attraverso l’intermediazione bancaria, viene onorato secondo le sue aspettative.

Non è un caso che la fase Romanin-Jacur della Zedapa si distingua essenzialmente per due scelte: quella del trasferimento della fabbrica (dove la Zedapa viene concepita essenzialmente come una «bella» area edificabile, e dove il passaggio della sede da un immobile di proprietà dell’impresa ad uno in affitto già denota una abbastanza precisa tendenza) e quella del passaggio della gestione alla SOI (con la quale il padrone si defila come imprenditore prima di un definitivo sganciamento). Operazioni alla cui effettuazione (soprattutto nel secondo caso) danno una spinta definitiva le lotte operaie che, nel ’73-’74, cancellano ogni velleità di mediazione paternalistica della conflittualità, ma che in definitiva vanno in una direzione a suo modo «naturale», assecondando una più generale tendenza.

Se l’intesa tra il capitale e la fabbrica è caduta, la fabbrica tuttavia resta come complesso di interessi creati (oltre che ovviamente di potenzialità produttive); la sua sopravvivenza è riconosciuta come un valore sociale da tutelarsi. Ovvero, tra capitale e forza lavoro esiste lo spazio della mediazione politica, che deve farsi carico di far coesistere interessi un tempo assai più facilmente conciliati. L’intervento della SOI, per quanto formalmente si presenti come un fatto tutto privato, costituisce appunto il primo passo verso una mediazione istituzionale. Con la sostituzione, infatti, al padrone di uno staff manageriale, si viene incontro ad una istanza espressa dai lavoratori, che in essa vedono una seppur parziale risposta all’esigenza di un rilancio dell’azienda, capace di una tenuta su tempi lunghi, e nel contempo si consente al padrone il primo passo verso una definitiva partenza. Alla SOI tocca in sostanza il compito di dimostrare per tempo la plausibilità di un’operazione che consenta la costituzione delle condizioni necessarie allo sviluppo dell’impresa, predisponendo così il terreno per la sua attuazione. Tralasciando le considerazioni relative alla qualità dell’attività svolta dalla società di gestione, ciò che maggiormente sembra importante sottolineare è come lo spazio della mediazione (che essa ha tentato di occupare, dando un contributo ad una maggior articolazione della conoscenza dei problemi aziendali e sostenendo la tesi della sopravvivenza della fabbrica) non ha ancora prodotto un definito quadro di soluzioni. Tanto più difficile è dunque il lavoro col quale sindacati e partiti tentano, in questi giorni, di dar corpo ad una accettabile soluzione transitoria.

Se la Zedapa, che in questo trentennio ha certo vissuto un suo ruolo nella vicenda dell’economia padovana e veneta, ha trovato per lungo tempo la sua carta vincente nell’impiego di un tipo di risorse attorno alla cui valorizzazione si determina una convergenza di interessi, ora la sua eredità può essere opportunamente raccolta solo concependone il recupero all’interno di una politica che abbia come suo obbiettivo la valorizzazione di una nuova gamma di risorse e la costruzione di nuove alleanze. All’atteggiamento praticato su sempre più larga scala dal capitale va data una risposta che si collochi all’altezza della complessità della sua organizzazione. La costruzione di questa risposta non può che avvenire attraverso l’elaborazione di nuove finalizzazioni e attraverso lotte che valorizzino, nella fabbrica e fuori, le capacità di quanto si riconosce come classe operaia di dirigere verso questo scopo il proprio lavoro. Già in un caso emblematico quanto difficile, come quello della Zedapa, questo è parzialmente possibile.