L’immagine del territorio e i processi migratori

 

 

 

 

Il territorio e le figure dell’ordine

 Forse il grande fenomeno migratorio che nel corso degli ultimi decenni ha assunto una tale rilevanza da segnalarlo come uno degli aspetti più vistosi di quanto si è sinteticamente – e anche un po’ miticamente – voluto afferrare nella nozione di globalizzazione, trasmette più compiutamente il senso della propria portata quando si consideri la radicalità delle sue implicazioni per il complesso di categorie e concetti con il quale l’insieme dei saperi della politica e della società hanno sino ad oggi cercato di governare conoscitivamente e praticamente le relazioni tra uomini. Si potrebbe quasi dire che il corpo del fenomeno si manifesti nella sua forma paradossalmente più concreta quanto più il movimento che lo porta in luce deforma o addirittura conduce al punto di rottura le risorse dell’ottica che dovrebbe “inquadrarlo”. Insomma, il sisma che mobilita le masse dei migranti non è al fondo altra cosa da quello che contemporaneamente sembra oggi inquietare le matrici logiche della rete politico-istituzionale che la modernità è andata tessendo come fondamentale condizione di quello che continuiamo a riconoscere e a leggere come il “nostro mondo. Quindi non irragionevole sarebbe ipotizzare che un’immagine credibile e utile , ovvero capace di favorire un concreto impatto con il reale, di ciò che costituisce complessivamente, come insieme strutturato di quelli che siamo soliti chiamare cause, effetti connessioni, dell’attuale fenomeno migratorio, dovrebbe infine risultare dalla sua esatta collocazione nel quadro processi politici e giuridici, oltre che, cosa in parte più immediatamente evidente, sociali ed economici, caratterizzati dalla loro irriconducibilità alla singole cornici nazionali ed ai parametri di lettura da queste derivate e dal disegno irriguardoso dei tradizionali confini statuali proprio del loro sviluppo, stanno per così dire “de-costituzionalizzando”l’ordine politico mondiale.

Potrà sembrare che alludere ai destini in via di maturazione della forma costituzione sia un modo abbastanza avventuroso di avviare una riflessione che promette di presto giungere alla questione arrischiata nel titolo e di soffermarvisi, eppure la comprensione dei modi in cui la nozione di territorio si è intrecciata negli ultimi due secoli con l’organizzazione complessiva dell’esistenza difficilmente può prescindere dall’internità di questi al grande processo costituzionale, che in occidente dalla grande rivoluzione sino ad oggi ha dato forma all’intreccio tra stato e società civile, legando identità e linguaggio di una sempre più vasta gamma di soggetti  ( amministrazioni, parti sociali , aggregazioni strutturate in funzione di interessi partiti politici, gruppi di pressione, ”movimenti….)”alla perdurante centralità della rappresentazione politica, della sovranità e del potere legittimo. Nella crescita in dimensioni e complessità dello spazio della mediazione costituzionale si situa ai più diversi livelli una formidabile pratica “territorializzante”, come spazializzazione di dimensioni dell’esperienza, avviate così ad una più garantita e calcolabile oggettivazione ma anche – ed è ciò che più qui interessa – come ‘presa di possesso conoscitivo, “statistico” e politico-statuale del territorio che lo rende disponibile senza residui per la “manipolazione” progettante.

Lo stato-società della seconda modernità, quello della sovranità popolare e quindi della forma-costituzione che filtra e modula la corrente delle grandi trasformazioni materiali e culturali convertendo i conflitti in articolazione espansiva è intessuto di saperi ( che trovano nelle università e nella grandi scuole il loro laboratorio e il foro in cui saggiare la propria identità intellettuale e la propria valenza ideologica e nella fitta rete delle amministrazioni e delle professioni il loro dispiegamento socialmente pervasivo ) è in misura crescente e con modalità sempre più sofisticate un poderoso creatore di mappe ( non solo in senso letterale ma certo prevedendo un ruolo di spicco per la geografia ), mappe come si sa destinate ad intrattenere un rapporto complesso e spesso alquanto teso con la realtà chiamate a sottomettersi  al giudizio e alla valorizzazione selettiva e progettuale in esse impliciti. Il tento spesso citato caso dei confini di stato di molti paesi segnati dall’esperienza coloniale, decisi con pochi geometrici fendenti sul mappamondo, e destinati a convivere con l’indecifrabilità culturale della loro identità subita, costituisce un esempio assai comunicativo, ma che andrebbe pensato in stretta connessione con altri, forniti dalla fenomenologia dei modi con i quali l’immagine del territorio ha decisivamente abitato i discorsi che la nostra cultura politica e amministrativa e più latamente i nostri sistemi sociali sono andati elaborando e praticando in patria, sino a dar luogo allo scenario presente. Qui la selva delle mappe operanti in sovrapposizione, a volte in sinergia ma spesso in contrasto sembra in alcune prospettive presentasi quasi come una sorta di ritratto di Dorian Gray in cui riconoscere la proiezione sul territorio di quella ormai configurata inadeguatezza a governare gli esiti del proprio sviluppo che oggi pare il tratto caratterizzante la prestazione della forma costituzione.

 

 

Prestazioni del confine

Si è osservato come i flussi migratori evidenzino la natura ormai problematica dei confini statali, che più che barriere invalicabili all’interno delle quali si attua tutta indivisibile e irresistibile la sovranità , sembrano funzionare come dei filtri o dei calibri, che più che ammettere o respingere producono , secondo complicati e cangianti equilibri tra forze, una modulazione differenziale del flusso, scomponendolo in più rivoli avviati con tempi diversi a diversi percorsi, ora legalizzando, ora determinando attraverso la clandestinità le condizioni per un più vantaggioso sfruttamento, ora alimentando un illegalismo sempre ufficialmente deprecato ma di fatto voluto e usato da soggetti socialmente forti e comunque sempre utilizzato come ingrediente per le strategie comunicative degli attori della politica. Una scomposizione che in ragione dell’utilità intravista nel materiale umano migrante seleziona singoli membri di famiglie, ammette o respinge singoli aspetti della fisionomia culturale della persona o distinte porzioni della sua capacità lavorativa, a volte (è il caso di alcuni cruenti “contratti di viaggio”), singoli organi umani, poi smistati al relativo mercato. Una distillazione frazionata nella quale è attiva in varia misura tutta o quasi la rete di connessioni economiche, politiche e culturali che intesse il continuum della migrazione nell’insieme dei processi di globalizzazione. Se i confini di stato vedono progressivamente evanescere il loro solco, su altri piani è tutto un fiorire di nuovi confini. Quelli dei luoghi di residenza di fatto coatta, ora concentrati ora disegnati lungo la geografia della giornata tipo del migrante pendolare, ma anche quelli che segnano il rimaneggiamento ad usum del corpo dei diritti di cittadinanza o la vigenza pro tempore di un diritto pattuito, valido di fatto in certe occasioni in contesti particolari. I migranti sono per questo dei formidabili evidenziatori involontari di quell’ordito di assetti provvisori, di zone elastiche complementari a contesti rigidi, che adeguatamente indagato racconta molto delle linee forza delle attuali trasformazioni, come un liquido di contrasto marcano i luoghi di tenuta precaria, di disagio, e, se guardiamo all’immaginario, le allucinazioni e i sintomi in genere, che pervadono il corpo del sociale. E, sia detto per inciso, questo getta una luce particolare sull’affermazione, in genere impiegata nelle retoriche italiane come esorcismo bypartisan nei confronti dei timori di invasione, che vuole gli extracomunitari utili per la nostra economia e che sembra le gare il corpo vivo di una presenza comunque rivolta a proporre , per quanto problematicamente, la propria vitalità come una risorsa ricca, tendenzialmente da coinvolgere in uno slancio espansivo sorretto da una larga reivenzione di ragioni della prosperità e di connessi stili sociali, con quello, se non morto, senile e mortifero, di un’immaginazione tutta difensiva della realtà presente, arroccata sulla manutenzione dei sui limiti e della  sue dispersioni di risorse, quali indispensabili presidi di un’identità per lo più solo supposta. Non a caso a ben vedere la perturbante diversità culturale imputata al migrante si può in parte sintetizzare nell’evidenza nei suoi comportamenti di una intuizione del territorio che sembra distorcere radicalmente la nostra, una differenza che certamente si manifesta  in diversi criteri d’uso dello spazio fisico, ma che il più delle volte implica quello che potremmo chiamare un sentimento “altro”, plastico e soggettivamente dinamico del territorio, che avverte il lungo percorso, la mobilità ora orientata ora solo errante, spesso la perdurante indeterminatezza delle destinazioni finali, come il luogo di un paradossale abitare, in cui assenza di radici e appaesamento  stanno in rapporto osmotico, attraversando senza soggiacervi le forche caudine 1dell’alternativa espulsione versus assimilazione.

 

 

 

I territori del welfare

 

Significativamente il configurarsi come problema di cospicue dimensioni del fenomeno migratorio in un contesto come quello italiano e “nordestino” in particolare coincide con quello che potremmo definire il palesarsi di un intrinseco limite di sviluppo delle politiche del welfare e delle sue implicite culture, dei suoi saperi applicati come delle concezioni generali che costituiscono la sua declaratoria ideologica ed anche il senso comune diffuso che ne accompagna, nel bene e nel male, la realizzazione. Non sarebbe probabilmente del tutto peregrino, soprattutto qualora lo si potesse fare con maggior dettaglio analitico di quanto non sia consentito a questi pochi cenni, rappresentare questa congiuntura ardua e forse non superabile se non attraverso una radicale metamorfosi dell’insieme di forme del nostro stato sociale, come il risultato di un grande intrico di mappe diverse come effettivamente in una serie di lucidi che riproducano il territorio secondo i più diversi criteri e punti di vista. Essi sono tra loro sovrapposti tutti in varia misura dotati di loro razionalità e di una loro conformità a scopi, eppure nel loro insieme convergenti nell’indicare una crescente difficoltà di quella che si potrebbe chiamare l’integrazione dei loro dati in una visione d’insieme che consenta un’interpretazione e un governo di questa realtà non troppo equivoci, non troppo forzati, non troppo riduttivi della sua complessità e, ciò nondimeno, capaci di favorirne la traduzione in elementi positivi e vitalmente ordinati di sviluppo.

Questa considerazione potrebbe esser proposta indipendentemente da un riferimento al fenomeno migratorio, e d’altro lato, paradossalmente, l’importanza e la novità di questo si evidenziano quanto più si consideri che, di fatto, quasi nessuno di quei problemi che con tanta enfasi i media i propongono come effetto della presenza dei migranti, sia esclusivamente dipendente da essi. Anzi, non sarebbe azzardato sostenere che tutto il cahier di questioni legato all’immigrazione sussisterebbe anche qualora questa non sussistesse. I migranti evidenziano, a volte esasperano, ma a ben vedere contribuiscono, caso mai, a chiarire la natura di quei problemi, mettono in primo piano dimensioni in genere neglette, perché le logiche implicite nell’intelligenza attiva nel funzionamento del nostro sistema, faticano a leggerle. Proprio per questo la loro presenza rinvia alla natura vasta e complessa di quanto origina effettivamente quell’empasse, ovvero a processi nei quali anche i migranti sono ovviamente coinvolti, ma come parte di una globalizzazione che agisce nei nostri spazi con modalità potenti e pervasive assai più corpose di quanto non sia la migrazione stessa, tanto che, come più volte si è potuto constatare, la vicenda di questi ultimi decenni è descrivibile come una grande universali migrazione nella quale ai nostri migranti è imposta la via lunga e dura del trasferimento. Ma a noi, alle popolazioni stanziali dei paesi d’accoglienza, è stata di fatto somministrata un’altra, indubbiamente più comoda emigrazione, comunque non priva di insidie, quella dalle nostre condizioni di vita di 20-30 anni fa, dalle quali ci separa un tratto così esteso nell’ordine del nostro vissuto da comportare problematiche identitarie, traumi culturali non troppo inferiori a quelli che, nel breve tempo, s’impongono a chi giunge qui da un altro continente.

La razionalità propria del welfare e, più latamente, quella delle amministrazioni, tende a leggere la realtà umana contenuta negli spazi di sua competenza essenzialmente attraverso il filtro degli interessi e dei bisogni che ad essa è possibile imputare. La grande complessità che attualmente le nostre politiche devono fronteggiare si lega alla estrema densità del panorama che così si viene a descrivere, soprattutto quando si consideri come le mappe dei bisogni e degli interessi si intreccino necessariamente con quelle dello sfruttamento produttivo del territorio. D’altro lato l’espandersi sempre maggiore del problema della realizzazione del principio di cittadinanza, ovvero il crescere, nella nostra considerazione, dei diritti che la mediazione statale dovrebbe garantire, delle opportunità e dei servizi che essa dovrebbe assicurare, della qualità complessiva di vita che dovrebbe essere il premio della fedeltà dei cittadini alla forma-stato, logora la capacità stessa del concetto di cittadinanza di rispondere, alla lunga, alle esigenze che gli hanno conferito così grande importanza. Allo stesso modo esso mette progressivamente in questione la posizione di soggetto supposto potere del governante-amministratore legittimato, in quanto rappresentante politico, ad interpretare l’interesse generale. Non è un caso che, in una situazione nella quale il territorio sembra anche pullulare di una pluralità di micro-centri in qualche modo desiderosi di agire e di contare, l’obiettivo tradizionale della partecipazione politica si presenti come sempre di sempre più aleatorio conseguimento. Non mancano, d’altra parte, casi in cui la discrasia tra il prodotto delle procedure amministrative e della mediazione tra le diverse formalizzazioni degli impulsi provenienti dalla lettura di interessi e bisogni con un vissuto irriducibile a queste categorie della presenza umana in singoli momenti del territorio, produca rottura radicale, revoca quantomeno ventilata dell’autorizzazione politica delle istituzioni, invocazione, magari nei modi demagogico-qualunquistica, ma non priva di ragioni ulteriori, di un’altra immaginazione per la forma delle produzione delle scelte.

 

 

Mappe e desideri

 

Al di là delle clamorose proteste verificate in occasioni particolari, vi è la quotidiana esperienza, che passa perlopiù sottotraccia, del proprio esser-anche-altro rispetto ad una somma di interessi e bisogni riconosciuti che è, in varia misura, di quasi tutti i cittadini. Il migrante esaspera questa condizione. Il suo progetto migratorio, in molti casi, trova una sua coerenza, magari stravolta, più che in un calcolo minuzioso di presunti ricavi della sua scelta, nella indiscutibilità di un desiderio. Al fondo del progetto migratorio, spesso, opera una fiducia che potrebbe apparirci temeraria nella positività di un abbandono alla condizione del migrare. Si badi bene, non si ha certo l’intenzione di attribuire a persone che si adattano ad un’esperienza faticosissima ed anche pericolosa, una qualche velleità d’avventura, ma solo mettere in luce come nel migrante agisca una disponibilità a mettersi in gioco che si lega ad una fiducia di fatto nella forza del suo desiderio di poter comunque affermare la sua esistenza in contesti forse immaginati, ma anche nella più rosea delle immaginazioni, non certamente garantiti come pienamente accoglienti e tantomeno protettivi. E d’altra parte, quella disponibilità a vivere nel disagio, quasi sempre imposta dalle condizioni che rendono la loro presenza vantaggiosa per la nostra economia, è uno dei tratti che rendono la loro immagine più perturbante. Così come sconcerta la propensione del migrante a subire tutte le lusinghe del nostro consumismo e nello stesso tempo, a metabolizzare queste esperienze all’interno di un percorso in cui è comunque sempre altro l’obiettivo, dove fondamentalmente l’esigenza dominante è quella di insistere nei propri tentativi.

Insomma i migranti proiettano sul nostro territorio una mappa di desideri che dà luogo, come si diceva, a intuizioni territoriali abbastanza sorprendenti. Esse privilegiano luoghi che la nostra attenzione spesso trascura, congiungendoli con altri che evadono di molto da quelli noi sentiti come i nostri confini. Così essi finiscono per incrociare uno spazio così ritagliato con la configurazione da parte delle società ospitanti di dimensioni rimosse dalla propria autorappresentazione. Si pensi a come potrebbe leggersi in questa prospettiva la geografia della prostituzione, dello spaccio di droga, delegata a non luoghi ridestinati a paradossali tecnostrutture di queste attività e integrati, bene o male, nell’immaginario dei fruitori autoctoni e spesso xenofobi, di questo servizio. Allo stesso modo, su di un versante per fortuna di altra qualità, si consideri lo spazio di contaminazione culturale che si configura, seppure a fatica, in luoghi di lavoro, di studio, che cambiano parzialmente le qualità in funzione dei microeventi di incontro e di invenzione comune che vengono a prodursi. Infine al vario significato che viene ad avere il prodursi di concentrazioni di emigrati in luoghi specifici, inquietante nelle realtà urbane dove è sempre pronta a planare la formula giornalistica del Bronx, e che peraltro fotografa la saldatura tra sfruttamento del lavoro in una prospettiva di accoglienza limitata all’indispensabile, e logica speculativa. A questa si accompagna l’ambiguo caricamento delle conseguenze sul bilancio dei nostri costi sociali, nonché su quello della parte inquietante dell’immaginario collettivo.

Più ancora, però, varrebbe la pena di rivolgere attenzione ad un altro aspetto del nesso desiderio-territorio, che emerge attraverso il comportamento migrante, ma che in molti casi tende a fondersi con quello che si fa strada nei comportamenti di parte della popolazione stanziale. L’evidenza della campitura vasta dei processi decisivi per la nostra realtà non distrugge necessariamente, come spesso si vorrebbe sostenere, il sentimento delle nostre comunità, e neanche la forma delle piccole patrie, ma certo è giustamente inclemente con quelle rappresentazioni delle loro realtà che le vorrebbero chiuse e autosufficienti, immerse in una tutela allucinatamente conservatrice di tradizioni in realtà sempre più sacrificate proprio dalle anestesie intellettuali ed emotive imposte da tale atteggiamento conservatore. Si afferma, attraverso i migranti, qualcosa che non è del tutto diverso da quanto sperimentano i nostri giovani più propensi ad articolare su scala europea, o addirittura mondiale, i loro tentativi di lavoro o di studio. Il senso di un’appartenenza plurima di un territorio proprio fatto di luoghi, anche molto distanti, che non necessariamente deve tradursi solo in frammentazione, o peggio in schizofrenia, ma che può ripercorrere la geografia di relazioni attraverso le quali matura la fisionomia del nostro presente, relazioni casomai bisognose di essere investite da un’interpretazione partecipata come esperienza culturale vissuta socialmente, e tradotta in nuova qualità progettuale.

Non stupisce quindi che la richiesta che al fondo sembra emergere dai comportamenti dei migranti sia abbastanza trasparente sullo sfondo di un sentimento mobile e rapidamente aggiornabile del “loro “ territorio ( compatibile ovviamente anche con forme di grande rigidità conservatrice per alcuni sezioni del loro portato tradizionale e il loro patrimonio comportamentale ) che può contemplare la prospettiva del radicamento, con la conseguente apertura in direzione della valorizzazione di una nuova appartenenza politica con conseguente interesse per relative tematiche ( diritto di voto, acquisizione della cittadinanza…), ma senza la rinuncia a modulare in qualche modo l’istanza di un pluralismo identitario, ma anche quella che ambirebbe a veder riprodursi un insieme di diritti riconosciuti al migrante in quanto tale lungo tutto lo sviluppo del suo percorso, in una prospettiva che tende a far prevalere come maggiormente “reale” lo scorrimento e la territorialità da esso indotta rispetto alla corrispondenza statica, coerente con la logica della sovranità statale tra diritti, amministrazione e spazio confinato.

L’ascolto, ci si augura né programmaticamente diffidente né acriticamente empatico, di questo rumore di fondo, largamente avvertibile come colonna sonora dei nostri  paesaggi, potrebbe risultare d’aiuto per quella ricerca di nuove invenzioni dei modi del nostro ordine politico verso la quale la forza delle cose comunque ci sospinge, suggerendo nuovi incroci tra rappresentazione del territorio e nuove emergenze soggettive che in essa proiettino il loro evento e la proposta di senso che lo accompagna. La propensione sempre più frequente di migranti ormai in grado di “prendere le misure” del nostri contesti di comunicazione  a prendere la parola non soltanto per raccontare la propria alterità, ma per tentare di dire per sé e per i più antichi abitanti del posto il significato di ciò che accade in un “qui” che è il luogo spazialmente e geograficamente tutto in questione del nostro presente si iscrive nell’ancora precoce bilancio di questa singolare economia.

 

Testo pubblicato in Territorialità, a.c. di Marina Bertoncin e Andrea Pase, Franco Angeli, Milano  2007, pp.32 – 39.

 

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