Recensione a “Scrivere la contingenza”

 

Jacques Lacan

Già il titolo indica come il volume sia mosso dall’esigenza di sviluppare le potenzialità di una congiuntura che per varie vie si manifesta attuale. Da un lato la nozione di scrittura si presta,

in virtù di quella funzione registica del lessico lacaniano che essa  è andata progressivamente acquistando nel protrarsi del Seminario, a fungere da traliccio, ma anche da principio ordinatore di un ripercorrimento globale della pratica lacaniana del pensiero nel suo farsi strada attraverso i luoghi cruciali in cui la filosofia ad un tempo la chiama ad agire, mentre sembra poterne e doverne fare a meno. D’altro lato questa modalità svela molto di ciò che la rende legittima e utile quando la si colga come consanguinea all’esigenza che invita a cogliere la centralità della nozione di contingenza, come indispensabile per comprendere in che modo la psicoanalisi si collochi, nel caso di Lacan, all’interno di un’organizzazione storico-culturale del pensiero che essa non può che sovvertire nel momento stesso di ogni suo effettivo accadere

Per questo la proposta del volume non può che riconoscere la relazione decisiva della psicoanalisi con il proprio di una filosofia, realizzata e sovvertita ad un tempo, perché la psicoanalisi rimette in questione quel suo assetto identitario che si chiude sulla rimozione del desiderio che la sospinge.

Non a caso, nella trama in cui il volume reintesse le linee fondamentali dell’opera lacaniana, sembra trasparire un ordito concepito a partire dall’assunzione dei modi propri della fase cronologicamente più avanzata dell’itinerario lacaniano, secondo un arco che congiunge in un’unica prestazione strutturante Lituraterra e il Seminario XXIII.

Non sorprende ormai che un itinerario sifatto possa anche corrispondere ad un più compiuto e produttivo insediamento del discorso psicoanalisi e filosofia nel luogo in cui Lacan lo situa, quello che si evidenzia qualora si colga l’effettiva portata della nozione di antifilosofia.

Il libro infatti ci sembra procedere dalla convinzione che il rapporto tra filosofia e psicoanalisi non è da concepirsi come mutuazione reciproca di lessici e strategie di composizione del discorso, ma riguarda la realizzazione della psicoanalisi in un movimento che non può che passare attraverso la radicale messa in questione della posizione del pensiero nella filosofia, una messa in questione che ad un tempo confuta l’autorappresentazione della filosofia e assume il desiderio che in essa parla e promuove un pensare e un dire di cui si deve intendere e praticare l’effettiva ragione, assumendone effettivamente la causa.

Di qui si potrebbe dire che il libro opera a partire da una esigenza, crediamo oggi vastamente sentita tra coloro che intrattengono con Lacan un rapporto avvertito come necessario al di là di una adesione scolastica ad una ortodossia lacaniana. Si tratta di comprendere come si ricollochi il pensiero a partire da ciò che Lacan attiva come pratica nella scrittura cui dà luogo il suo fare, e che rapporto intercorre tra questo luogo e la forma dell’operare filosofico. Insomma, se Lacan attraverso il suo esercizio continua ad evitare che la contingenza sia cancellata a favore di qualche universale che consenta al soggetto di non essere in questione, occorrerà approfondire come questo movimento detti le condizioni e indichi le potenzialità di uno “scrivere la contingenza”.

Lo stile, genialmente clownesco del Lacan dei Seminari riapre costantemente la contingenza di un momento presente in cui la teoria è più attiva proprio perché è tutta arrischiata nella pratica che la produce, non come prodotto finale, ma come condizione continuamente riattivata della propria apertura. Anche quando il pensiero lacaniano sembra disporsi nelle forme di un imponente architettura schematica è ben lontano dal rilasciare queste sue figure come edificio dottrinale. Esse sono la sbarra cui si appoggia il danzatore nel suo quotidiano esercizio.

Lacan produce una scrittura della contingenza assolutamente singolare, ma proprio per questo non “particolare”, non a caso esposta sempre al rischio della propria seduttività che chiama a rispondere alla proposta che la anima nella forma di una imitazione a volte prossima alla recitazione mantrica. Bonazzi, nel suo libro, si assume il compito di far funzionare una fruttuosa castrazione che eviti di rispondere all’angoscia di sentire la portata decisiva del pensiero lacaniano come ciò che spinge a ridirne gli stilemi, a rirecitarne gli eventi linguistici e propone invece la via di una assunzione per il pensare gli effetti essenziali dell’esempio lacaniano oggi.

Si tratta di ricavare da quell’accordo che si percepisce agire in una vasta sinergia tra le formule essenziali della pratica lacaniana, la traccia a partire dalla quale riconoscere una posizione non meramente immaginaria, né immaginariamente simbolica del pensare nel nostro tempo, ovvero di scrivere la contingenza.

“Nel 1976 Lacan, gettando uno sguardo vertiginoso all’indietro, dice ciò che non ha mai detto e che in fondo non si può dire: il vero sul vero. E lo dice rivelando, non tanto il senso che sostiene il suo dire, ma l’atto che orienta il suo fare o il suo dire in quanto fare. Si tratta di «fare ciò che ho effettivamente fatto, né più, né meno: seguire le tracce del reale» (Sem. XXIII, p. 63). Dire il vero sul vero significa mostrare nel detto che si dice, questo è il punto reale che si cela dietro il cortocircuito dire-intendere” (Bonazzi, p. 186).

La psicoanalisi propone alla filosofia di riconoscere nel singolare non ciò che l’universale deve superare, ma quanto ad esso manca perché il desiderio che ne ha prodotto la condizione linguistica e ideale non vi trovi la sua morte, ma possa dare al suo sviluppo quella relazione con il reale in cui sta la sua potenza.

 

Recensione a Matteo Bonazzi, Scrivere la contingenza. Esperienza, linguaggio, scrittura in Jacques Lacan, Edizioni ETS, Pisa 2009 pubblicta in Attualità lacaniana, N. 12, Milano, 2010.