Tempi e forme del morire

 

L’ordine del politico e la morte

Dialogo è termine che si propone come centrale nella rappresentazione che si è soliti riprodurre di ciò che si è chiamato multicultura. In un certo senso che qui si tenterà proporre cercherà di approfondire il senso di una domanda che reca in sé una sottolineatura provocatoria: “Chi dialoga, quando si dialoga?”, oppure: “Cosa dialoga nel dialogo?”

Per essere più esplicito, credo che sia molto diffusa l’esperienza dei dialoghi fittizi, in cui i dialoganti appaiono come maschere precostituite che generano artificiosamente una supposizione di realtà. Dialoghi che pattuiscono un equivoco e sanciscono una comprensione reciproca tra nessuno, mentre restano silenziosi e non comunicanti i qualcuno che stavano, per così dire, dietro le bandiere dei presunti dialoganti. Senza intenzione polemica, si può osservare che questo accade frequentemente in quel contesto che chiamiamo “dialogo interreligioso”, quando le religioni si presentano come dei potentati estremamente terreni che si confrontano con le cautele e l’assenza di generosità che caratterizza in genere il dialogo tra gli Stati. E nel momento in cui si nomini lo Stato, non si può non sottolineare come il lessico politico che allo Stato si collega e la stessa scienza politica moderna siano connessi geneticamente e logicamente con la dimensione della morte.  Alle soglie dell’epoca dei grandi assolutismi e della vigenza della potente macchina giusnaturalistica, non a caso Shakespeare ammoniva  in un luogo famoso che «inquieto dorme il capo che cinge la corona, perché in quel cerchio dorato tiene il suo seggio la morte»[1].

In effetti, tutte le categorie che compongono il corredo cromosomico dell’ordine politico moderno sembrano collegate sistematicamente ad un origine che coincide con una prestazione decisiva del simbolo della morte. È la paura di quella morte che giustifica quell’egoismo senza il quale non sarebbe possibile immaginare la grande scena del patto sociale. La morte, proprio perché certa, può essere anticipata o dilazionata e poiché tutti sperano di rinviarla il più possibile, si preferisce che si concentri in un unico potere la facoltà di somministrarla. E a tale potere ci si sottomette dando così luogo all’ordine di cui tutti divengono ad un tempo effetto e causa.

In questa prospettiva, è essenziale che tutti si voglia  sopravvivere il più a lungo possibile e che nulla vi sia per cui valga la pena di sacrificare la vita in modo che il monopolio del potere possa dare finalmente ordine a questa realtà imperfetta e disordinata che è naturalmente la natura umana.

Questa pur semplificata rappresentazione del lascito hobbesiano nella vicenda della politica moderna assume qui un suo senso perché, nel momento in cui ci chiediamo se lo scenario multiculturale sia più un pericolo o un’opportunità, mettiamo in campo un’altra grande figura che si lega inevitabilmente alla morte: la paura.

È un altro ingrediente decisivo dell’ordine politico, ma prima ancora, secondo una nota formula nietzscheana, è un movente decisivo dell’impresa della conoscenza. Il filosofo della Gaia scienza pone, come noto, sostiene che la paura di ciò che è radicalmente nuovo ci induca a ricondurre quest’ultimo a qualcosa di già saputo e quindi di controllabile, che non costituisca per noi motivo di turbamento e che,  si può aggiungere, lasci sostanzialmente intatta l’immagine che noi abbiamo do noi stessi. Il perturbante, l’Unheimliche freudiano, per evocare una volta di più uno dei passaggi del pensiero psicoanalitico più destinati ad operare sovversivamente nell’orizzonte della cultura del novecento e non per nulla quella cosa che irrompe nel nostro campo visivo, così intollerabilmente nuova ed estranea proprio perché in realtà situata all’altezza delle decisioni costitutive della nostra identità e perciò capace di imporci di non essere più ciò che pretenderemo di essere prima che essa compaia. Ciò che ci perturba è ciò che ci impedisce di conservare la nostra presunta identità.

Queste considerazioni, nel momento in cui si sarebbe chiamati dal tema di quest’esposizione ad introdurre la nozione di multicultura, hanno evidentemente il fine di presentare questa nozione già inserita in un percorso che punta a metterne in questione l’adeguatezza al compito interpretativo che la suscita e, quindi, a prospettare i meriti del concetto di intercultura che, almeno, per qualche tempo ci sembrerà nominare più propriamente il rapporto tra quanto si produce nell’incontro tra le culture e il senso generale di questo evento nell’oggi della globalizzazione per la forma complessiva della nostra esperienza intellettuale, quella di intercultura. Ciò sempre nella consapevolezza che proprio quando assumono una decisiva funzione strutturale nell’ordine del discorso, simili concetti agiscono come oggetti transizionali, portatori pro tempore di una loro forza di verità che spendendosi anche ne consuma l’efficacia.

Attualmente, diversi fenomeni  portano a interrogarci sul’intreccio  di una pluralità di culture nello spazio della nostra esperienza. Ma tale congiuntura non è cosa che si aggiunga come un evento esterno alla vicenda nella quale la logica della modernità si svolge articolando e logorando i temi fondamentali della nostra esperienza dell’ordine. Se noi potessimo ipotizzare una pluralità di culture, ciascuna collocata in una sua territorialità separata, distinta e poco interferente con noi, la nostra sensibilità per questo tema sarebbe infinitamente ridotta. Invece ci troviamo con diverse culture che condividono gli stessi spazi e i medesimi tempi semantizzandoli in maniera diversa.

 

Da multicultura a intercultura

Quanto dà motivo si parli di multicultura e intercultura, non si produrrebbe se l’evoluzione di quelle grandi matrici logiche, che sono state il telaio della modernità e della modernità politica in particolare, non le avesse condotte a uno snodo che rimette radicalmente in questione le loro decisioni fondative.

Queste decisioni operavano imponenti selezioni all’interno delle nostre tradizioni culturali, e contemporaneamente dettavano le linee di un’appropriazione conoscitiva del resto del mondo; in altri termini, producevano quel movimento verso l’altro che assumeva anche l’aspetto di una costruzione dell’altro come articolazione essenziale della nostra autocostruzione. Non a caso sperimentiamo spesso come una sorta di infelicità il rapporto difficile che esiste tra il nostro desiderio di andare verso l’altro e la gelida indisponibilità della categoria logica dell’altro a reggere effettivamente l’espansione di questo desiderio, perché l’altro rischia costantemente di trasformarsi nel nostro altro: un altro fabbricato ad uso del nostro desiderio di estinguere la paura di scontrarci con qualcosa che ci stia davanti senza che noi lo si riduca a qualcosa di conosciuto. Di qui l’insistenza desiderante nel cercare un altro dell’altro. Qual è il vero “altro” dell’altro? Cosa c’è di nascosto dietro quell’altro che in realtà scopro essere semplicemente l’altro che mi sono fabbricato? C’è semplicemente il modo in cui ho attivato ciò che rappresentava qualcosa di diverso da me, in una dialettica a cui è affidato il ripristino di una mia competenza sul tutto. Questo tipo di atteggiamento è per molti versi l’atteggiamento complessivo delle nostre culture, istituzioni e realtà politiche nei confronti del resto del mondo ed è stato per molti versi quello che ha ispirato quella cosa che chiamiamo multicultura: l’idea cioè che, giunta ad una fase di ricca e vasta evoluzione, la società mondiale, governata dalle forme di un capitalismo particolarmente avanzato e saggio, potesse porsi l’obiettivo di garantire la sopravvivenza e riconoscimento di una pluralità di culture viste come una pluralità di essenze quasi biologiche. Tutte le culture del mondo, conservate e fatte salve; come in una sorta di grande orto botanico o giardino zoologico mondiale in cui ogni peculiarità si sia salvata e fissata sull’eternità di specie che la caratterizza – con l’ovvia proiezione sulle politiche degli spazi condivisi, e sul riconoscimento del diritto di ciascuno di essere felicemente schiacciato sulla sua presunta identità.

Lo sguardo del multiculturalismo riconosce le culture come organismi viventi votati a esprime e a conservare un ben definito profilo identitario, replica sul piano della civiltà di quel lussureggiare della biodiversità che il progresso, per un verso celebra attraverso l’osservazione scientifica, ma che anche si constata essere sempre di più minacciata dallo sviluppo stesso di economie sempre maggiormente mondializzate. Il multiculturalismo tenta di rovesciare ideologicamente il limite eurocentrico implicito nella sua ottica, mantenendo una concezione di cultura sostanzialmente ricondotta all’idea di patrimonio di valori e alla rappresentazione identitaria da esso garantita. Esso cerca di rompere l’ordine gerarchico che da tale visione discende, attribuendo una pari dignità alle varie tradizioni riconcepite, pur con tutta la buona volontà di comprenderle secondo i loro principi, come “culture”, nel senso che questo termine prende nella storia sociale e costituzionale degli stati e delle istituzioni del sapere occidentali, che ne garantisca sopravvivenza e mantenimento di caratteristiche contro le minacce dell’altra faccia, quella politico-affaristico-militare dell’Occidente, che invece le calpesta nei luoghi d’origine per condannarle all’assimilazione in quelli dove esse si manifestano tramite il fenomeno migratorio.

Non inutilmente tale concezione coglie nell’atlante policromo del mondo delle mille culture un elemento di ricchezza e vitalità che però, suo malgrado, scruta già filtrato da quella condanna alla pena capitale che è implicita in qualsiasi sguardo, pur amorosamente, oggettivante. La sua difficoltà a leggere nelle culture il processo che portandole a formarsi, insieme anche le compromette, nel loro stesso più intimo ed essenziale movimento, con altro, promuovendone la vita proprio sottraendole alla pura autotesaurizzazione e facendo sì che gli esseri umani che li incarnano siano sempre di più e altro che dei meri “portatori”, si traduce nella limitata capacità di cogliere la natura del proprio effettivo ruolo culturale e politico nell’insieme dei processi che pure la rendono possibile.

Sotto questo profilo la tradizione multiculturale rimuove il fatto che le culture e le tradizioni sono intrinsecamente gettate nel tempo, e ciò che ne produce la fisionomia è quella relazione che essenzialmente ne lega tutto lo svolgimento alla loro radice nel tempo presente. Si tratta non soltanto, né principalmente, di riconoscere la forza legittimante che le culture traggono dalla rappresentazione della profondità del loro passato e né di cogliere in questo il sigillo di un’identità tutta già compiuta, destinata a perdurare con quella, forse inevitabile implicazione della sopravvivenza, che è l’ostilità mortale contro ciò che deve perire affinché noi si possa essere i sopravissuti, ma di riconoscere nel presente il tempo in cui tutte le tradizioni e le culture, e forse anche tutte le religioni rischiano la totalità della loro vicenda contemporaneamente in relazione una con l’altra.

Questo fa radicale differenza tra multicultura e intercultura: nell’intercultura ciò che conta non è tanto che le culture siano eguagliate per valore e riconosciute nel loro diritto alla sopravvivenza, ma il riconoscimento che la loro realtà si produce nella loro relazione.

Inoltre, da quanto discende dalle considerazioni precedentemente ricordate sul rapporto tra conoscenza e paura, nella prospettiva interculturale il diverso non è pacificamente e semplicemente  l’oggetto di una nostra conoscenza “amorosa”, ma si configura come perturbante, un evento che noi conosciamo soltanto se non facciamo della conoscenza un esorcismo che lo riduca al già noto, ovvero, di già ricondotto al ruolo di complice della nostra auto-rappresentazione[2]. Vengono alla mente alcuni lucidi passaggi delle  Lettere ad un giovane poeta[3], dove Rilke ci presenta l’esperienza del nuovo come qualcosa che è già nato e che dobbiamo tutelare e proteggere, ma come qualcosa che sta nascendo. Questo potrebbe essere una delle definizioni di intercultura: cogliere la relazione tra le culture come nesso tra soggetti, colti nel loro cospirare la propria nascita. Si tratta quindi di avvertire le culture non come ciò che deve essere salvato, ma come ciò che adesso, nella totalità della loro tradizione, arrischia la propria nascita in un tempo comune con noi.

In questa luce, la prospettiva interculturale ci porta a considerare il confronto tra le culture dinanzi alla morte come legato ad una diversa percezione del muoversi della morte nell’organizzazione della vita.

Franz Rosenzweig, nelle battute iniziali de La stella della redenzione, dal titolo programmatico «Sulla possibilità di conoscere il tutto. In philosophos!», procedeva da questa provocatoria affermazione: «Dalla morte, dal timore della morte, prende inizio e si eleva ogni conoscenza circa il tutto. Rigettare la paura che attanaglia ciò che è terreste, strappare alla morte il suo aculeo velenoso, togliere all’Ade il suo miasma pestilente, di questo si pretende capace la filosofia»[4].

La filosofia nasce dall’esorcismo della morte. La sua prima prestazione consisterebbe nel trasformare l’assoluta singolarità della morte nel simbolo universale della morte. Nel momento in cui ci si possa spiegare che la morte riguarda tutti noi, necessariamente, e nel momento in cui decidiamo di poter parlare di questa morte, abbiamo finalmente cancellato la morte singola, quella che tocca senz’altro a ciascuno di noi ma più ancora a uno soltanto, a quello che nella sua morte sarà solo. L’interesse di questa argomentazione, rispetto all’architettura complessiva di quel pensiero, sta nel porre in una forma più radicale di quanto le migliori risorse della tradizione dialettica avessero potuto fare il problema della singolarità. La morte nella sua irriducibilità, simbolo universale, diviene ciò che chiama al confronto con il problema di ciò che è radicalmente singolo.

Il percorso di Rosenzweig suggerisce una proposta che può contribuire a chiarire l’obiettivo di questa riflessione:  il nostro desiderio di conoscere e di avere veramente rapporto con l’altro forse altro non è che il desiderio che nell’organizzazione del nostro pensare, del nostro dire, non taccia l’assoluta singolarità di ciò che siamo, la singolarità della nostra morte. A questo desiderio si risponde non con una conclusiva, felice e vera definizione, sulla quale si possa costruire l’edificio di un’ulteriore filosofia secondo le sue forme classiche, ma con una pratica del pensiero e della parola. Nei confronti di quell’altro che sempre perdiamo quando lo riduciamo a oggetto, abbiamo cioè bisogno di una pratica che gli consenta d’accadere con noi, come un soggetto.
 

L’altro e l’ascolto

Il tratto che decisivamente connota tale pratica si rivela nell’ascolto. Si potrebbe dire che il pensiero, l’esperienza poetica e quella artistica del Novecento ruotino attorno a un’ardua modalità di accoglimento, che passa da una centralità del dire – sia come posizione speculativa in filosofia, sia come dettato poetico nella poesia – ad un dire e ad un pensare come ascolto.

L’ascolto non comporta necessariamente silenzio o l’abbandono della parola a qualcun altro. Esso è piuttosto intonazione del pensiero e della parola come accoglienza di ciò che non parla o che parla senza riuscire a dire. Gadamer affermava che  dialogare vuol dire ammettere che l’altro possa avere ragione. Ma forse potrebbe anche voler dire: ammettere che l’altro c’è, anche quando ha torto, ovvero quando il pensiero nel suo rigore non gli darà ragione. Dialogare significa ammettere e riconoscere che l’altro c’è, nell’unico modo in cui noi possiamo farlo, accettando cioè che ci sorprenda, che non si muova nella direzione che ci aspetteremmo, senza che questo significhi l’abdicazione alla nostra capacità di agire nei suoi confronti – come ciò di noi che non abdica in relazione al suo essere un evento perturbante. Possiamo reggere questa sfida? Stare a contatto non a distanza di lucidità teoretica con ciò che accade, conservando tuttavia il dovere del rigore e della lucidità? Possiamo portare il nostro occhio a contatto con ciò che dobbiamo vedere senza chiuderlo, e nondimeno continuando a vedere? C’è lo spazio per un vedere che anche un toccare?

Questo potrebbe riguardare molto da vicino l’esperienza di chi si trova a contatto con qualcosa o qualcuno che sta morendo, dove il gioco filosofico può dare molto come forma di intrattenimento, ma dove soprattutto viene in campo qualcosa che ci parla in modo forte a partire da tradizioni che ci sembrano esotiche perché abbiamo da troppo tempo perduto la loro presenza in uno spazio che invece è anche nostro. Si tratta della capacità, come ci ammoniscono alcuni grandi poeti del nostro tempo, di sapere che spirito e respiro non sono due cose diverse; di sapere, in altri termini, che c’è una vicinanza che è in qualche modo una compromissione complessiva di ciò che siamo attraverso la capacità di rendere non-separati il nostro corpo e il nostro pensare.

Nella società in cui la morte è quasi bandita, la cura del vivente concepito come morente di lungo corso, occupa un posto assai rilevante, ma contemporaneamente il più possibile separato da quell’ordine di vita che esso non deve contaminare. Insomma, in un paese di vecchi, che non è però un paese per vecchi, ciò che è segnato dalla morte in quanto posto sotto il segno dominante della vecchiaia, della malattia, della disabilità, della diseconomicità, diviene un problema interculturale perché implica una mediazione non semplice tra le esigenze di un’organizzazione di vita che percepisce la cura come pura distrazione dai propri temi dominanti e il principio di una necessaria vocazione del sistema sociale a garantire comunque nella forma del servizio la continuità di uno sforzo inclusivo di ciò che si avvia a morire nel funzionamento della normalità quotidiana. Ma il rapporto con il morente, insopportabile nella prospettiva di una vita ripulita dalla presenza della morte, risulta estremamente costoso.

Qui s’inserisce il fenomeno interculturale delle badanti. Indubbiamente, queste prestatrici di attenzioni rispondono all’esigenza di portare a livelli accettabili una spesa altrimenti insostenibile per il sistema sanitario e per le famiglie, e ciò in virtù del deprezzamento che le loro prestazioni subiscono per il fatto di scriversi nel rapporto tra economie di diversa statura. In questi termini avremmo esclusivamente un fenomeno di carattere economico. Non è così. Ciò che garantisce il successo di questo modello è qualcosa che procede in realtà da quanto potrebbe, e in parte ciò avviene, presentarsi come perturbamento, cioè come diversità maltollerabile, ovvero, quella che potremo definire un diverso atteggiamento nei confronti del vivente come tale e con l’essere umano avvertito in quanto gettato nella parabola complessiva della sua vita fisica e affettiva, e quindi sempre trasparente sui tratti non rimovibili della sua corporeità.

Proprio per questo si potrebbe dire che un aspetto non trascurabile del flusso delle badanti verso il nostro paese potrebbe, con un po’ di provocazione, essere definito un “traffico di organi affettivi”. Al di là di qualsiasi luogo comune moralistico sulla indole più o meno buona dei “popoli”, esse recano con sé la traccia di un contesto culturale in cui la confidenza con ciò che è vivo biologicamente come fatto centrale nell’organizzazione della vita è rimasto assai più alto. Una badante ucraina tende, con qualche scandalo delle nostre signore, a ritenere che sia più importante stare con una vecchia piuttosto che curare la pulizia dei tappeti o la lucentezza dei pavimenti in marmo. Perché, contrariamente a quanto è avvenuto in noi, trova molto più interessante ciò che è comunque ancora vivente, al di là di uno slancio generoso, rispetto a quanto ci rassicura circa la nostra identità pacifica e fittizia per mezzo di una sua natura inorganica e merceologica.

La badante, allora, si rivela essere una mediatrice culturale innanzitutto tra due diverse istanze mal conciliabili, che provengono dal nostro corpo sociale, quella che vuole salvaguardare l’anaffettività del sistema di rapporti dominante e quella che registra il bisogno di dare un senso affettivo alla gestione di ciò cade fuori da quella logica. A questa prestazione le collaboratrici domestiche sono abilitate da uno scarto culturale di cui facciamo prevalere l’utilità pratica, ma di cui sotto traccia avvertiamo il permanere di una diversità culturale inquietante, perché declina in maniera diversa il nostro ordine di priorità nel sentimento dell’esistenza.

Il rapporto tra le pratiche ispirate da diversi sentimenti e concezioni della morte non si manifesta soltanto nel modo di una vistosa diversità rispetto all’evento del trapasso e delle sue implicazioni rituali. Esso riguarda invece la relazione che s’instaura tra l’evoluzione della realtà spirituale implicita nel nostro sistema di vita e il rendersi evidente di ciò che il nesso segnala disagio e bisogno di nuova-antica invenzione attraverso l’esempio fornito da frammenti, a loro volta travagliati dalla forza delle trasformazioni in corso, di altri sistemi e di altre pratiche simboliche.

Proprio per questo allora diviene interessante capire come in uno spazio condiviso possano essere messe in gioco sapienze che riemergono da zone neglette della nostra cultura mediante l’evocazione procurata da chi le vive invece ancora come un presente.

In un suo bel testo[5], Enzo Pace descrive un funerale pentecostale che ha luogo in una chiesa cattolica del padovano, dove un prete volenteroso ha consentito ad alcuni pentecostali nigeriani di organizzare un funerale per un loro defunto. È un rito funebre cristiano e pure i presenti italiani che si attendono bene o male qualcosa di simile a un funerale restano progressivamente basiti dal levitare nel rito degli africano di una fisicità dirompente che si incanala in danze, canti, manifestazioni collettive di euforia. È possibile, ma si preferirebbe non seguire questo impulso, cogliere in questa esplosione di vitalità l’esca per rivitalizzare una nostra mai del tutto spenta propensione all’entusiasmo vitalistico. In effetti, più che abbandonarsi ad una momentanea fantasia sul maggior grado di felicità di cui sarebbero capaci per gli stessi motivi per cui si continua a ritenerli politicamente e culturalmente non adeguatamente sviluppati, questi popoli dotati di più gioiosa immediatezza nel rapporto con la “natura”. Si tratterebbe piuttosto di tentare di comprendere in che modo sollecitare un’interpretazione reciproca che stimoli un rapporto più disponibile al riconoscimento della complessità e della richiesta di potenzialità presenti nella realtà del qui ed ora in cui tutti ci troviamo.

In questa prospettiva, forse, ha senso pensare una rimessa all’opera del campo simbolico legato alla morte che scavi, senza utopie regressive, né “neolingue” comportamentali progettate a freddo, al cuore di quelle decisioni strutturanti che incidono più profondamente nel definire il repertorio di possibilità della nostra cultura. Bisogna rimettere in questione la formula che ci ha consentito di utilizzare abbondantemente la morte per costruire una società fondata su di essa, e che nello stesso tempo ci ha consentito di farla sparire dal nostro scenario. I rapporti tra morte e vita forse hanno bisogno di dialogo, così come un tempo si trovavano in un dialogo fitto e continuo coloro che stavano dalla parte dei morti e coloro che stavano dalla parte dei vivi: un dialogo che, come ci hanno insegnato gli antropologi, non era affatto una mera allegoria o una finzione poetica.

 

Testo pubblicato in Morire altrove. La buona morte in un contesto interculturale, a.c. Corrado Viafora , Francesca Marin, Franco Angeli, Milano, 2014.

 

NOTE

[1] W. Shakespeare, Enrico IV, Atto III, Scena I.

[2] Rinvio per un più esteso svolgimento di questi temi al mio Figure della prossimità. Sul presente delle culture, in A.F. Miltenburg (a cura di), Incontri di sguardi. Saperi e pratiche dell’intercultura. Unipress, Padova 2002, pp. 77-93.

[3] Cfr. R.M. Rilke, Lettere a un giovane poeta, tr. it., Mondadori, Milano 1994.

[4] F. Rosenzweig, La stella della redenzione, tr. it., Vita e pensiero, Milano 2008 (II ediz.), p. 3.

[5] Cfr. V. Pace, Raccontare Dio. La religione come comunicazione, Il Mulino, Bologna 2008.